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STRADE DELLA ROMA PAPALE

Via Giulia (R. VII - Regola e R. V - Ponte) (da  piazza San Vincenzo Pallotti a piazza dell'Oro)

La via prese il nome del Pontefice Giulio II (Giuliano Della Rovere - 1503-1513) che la fece sistemare dal Bramante.

Strada che avrebbe dovuto, attraverso il ponte Trionfale (da ricostruirsi),  raggiungere in linea retta [1] il Vaticano.
Il Pontefice “restituere volebat ut facilius ad palatium dicti offitiales et mercatores venire valerent, sed superveniente morte [2], ut dixi, opus effectum non habuit”.

L’idea, del pontefice Giulio II (Giuliano Della Rovere - 1503-1513) della costruzione di un palazzo dei Tribunali (Curia Julia), non fu più realizzato per la morte del Pontefice; “i sofà di via Giulia”, rimasti avanti alla chiesa di S. Biagio de Cantu Secuto o della Pagnotta, ne sono un ricordo.

Questa strada, sotto il successore di Giulio II, Leone X (Giovanni de´ Medici - 1513-1521), fu la più illustre del Rinascimento per i palazzi che ebbe e per la vita mondana e popolare che vi si svolse. Vi si stabilirono i Fiorentini in tal numero che un contemporaneo (romano) scrisse: “Tanti Fiorentini che è una compassione [3]: tucto il palazzo, tucta Roma non è altro....", e ancora ”dicti Fiorentini è in gran odio in la Corte, perché ogni cossa è Fiorentini [4]”.

La zona dove fu realizzata Via Giulia, nell’ansa del Tevere, fra il ponte Sisto e Ponte Vittorio, in epoca romana faceva parte del “Tarentum[5].
Infatti è in prossimità di S. Giovanni de’ Fiorentini che fu rinvenuto quel pilastro, oggi alle Terme Diocleziane, che portava incisi gli atti per l’ordinazione augustea, nell’anno 16 a.C., dei “ludi saeculares[6].

La strada Julia, che s’innestava all’altra (via dei Pettinari), che dal teatro di Pompeo portava alla via “Aurelia vetus”, s’iniziava in prossimità dell’antico pons Aurelius, e si chiamò “via Magistralis” dai diversi notai che vi risiedevano e fu una delle tante “viae Rectae” che pullulavano a Roma.
Diventò via Julia quando Giulio II (Giuliano Della Rovere - 1503-1513), pur distratto dal riordinamento dello Stato temporale e dalle conseguenti guerre e controversie diplomatiche che ne scaturirono [7], volle far drizzare la strada dal Bramante, spinto da quella febbre edilizia che aveva ereditato dallo zio Sisto IV (Francesco Della Rovere - 1471-1484).

Questi si preoccupò subito di demolire quanto poteva ostacolare il suo progetto e fu così che scomparvero parecchie case: l’orto degl’Incoronati [8] che avrebbe ostacolato la viabilità, e la chiesa intitolata a S. Donato, nominata già in una bolla di Urbano III (Uberto Crivelli - 1185-1187), tra le filiali di S. Lorenzo e Damaso.
La via, che oggi  inizia dal  largo  S.  Vincenzo Pallotti [11] (1795-1850),  nel ‘600 ebbe per sfondo il fontanone,  che  sta  oggi al  di  là  di  Ponte  Sisto (in piazza Trilussa). Nel ‘600 il fontanone era appoggiato alla parete dell’ospizio dei “Cento Preti”, creato da Sisto V (1585-1590) [9] e trasformato  da  Clemente  VIII  [10].

Subito a sinistra, si trova la fontana del “Mascherone”, indi si prosegue passando sotto il cavalcavia che, dalla terrazza costruita all’altezza del primo piano [12] del Palazzo Farnese, porta ad una piattaforma, che, secondo il desiderio di Paolo III, avrebbe dovuto appoggiare il ponte da costruirsi, fra il palazzo e la palazzina Chigi acquistata al di là del Tevere, chiamata poi la “Farnesina”.

S. Maria dell’Orazione e Morte - Sempre sulla sinistra segue la chiesa di S. Maria dell’Orazione e Morte, che è la prima delle chiese che si elevano sulla strada.
Edificata dall’arciconfraternita omonima nel 1573, ampliata nel 1737.
Scopo della confraternita, seppellire "i poveri, li quali o per la loro povertà, ovvero per la lontananza del loco dove morivano, il più delle volte restavano senza sepoltura e forse cibo di animali". Frequentemente i fratelloni dovevano recarsi alla ricerca dei morti in quel deserto che era l’Agro Romano, incolto, spopolato, percorso da briganti e teatro di selvaggi delitti.

Belli lo dipingeva:

 Dio me ne guardi, Cristo e la Madonna
d’annà ppiú ppe ggiuncata a sto precojjo.
Prima... che pposso dí?... pprima me vojjo
fa ccastrà dda un norcino a la ritonna.

Fà ddiesci mijja e nun vedé una fronna!
Imbatte ammalappena in quarche scojjo!
Dapertutto un zilenzio com'un ojjo.
che ssi strilli nun c'è cchi tt'arisponna!

Dove te vorti una campaggna rasa
come sce ssi passata la pianozza,
senza manco l'impronta d'una casa!

L'unica cosa sola c'ho ttrovato
in tutt'er viaggio, è stata una bbarrozza
cor barrozzaro ggiú mmorto ammazzato.

Per l’identificazione, i cadaveri venivano esposti nelle piazze frequentate.
Per i fondi, i fratelloni facevano ogni sabato la questua per le vie e sulla porta della chiesa: "poveretti che moreno pe le campagne e seppelliti pe' l'amor de Dio, in questo santo loco".

Prima di via Giulia, la Confraternita, che fu fondata nel 1538 ad opera della nazione Fiorentina, si riuniva a San Lorenzo e Damaso, poi a San Giovanni in Ayno e, nel 1557, era a Santa Caterina della Rota.

Durante l’ottavario dei defunti, in via Giulia, si facevano rappresentazioni sacre a mezzo di figure al naturale che avevano teste, mani e piedi di cera. Per esempio, nella rappresentazione della resurrezione di Lazzaro, si videro, oltre alle figure di cera, un autentico cadavere raffigurante Lazzaro, ed uno scheletro la Morte.

Per le composizioni e modellature, che prima erano fatte alla meglio da qualche fratello, in seguito alla concorrenza che facevano i cimiteri di Santa Maria in Trastevere, di Santo Spirito in Sassia, del Laterano, dei Cappuccini a piazza Barberini, di San Salvatore in Primicerio (Trifone in posterula) e  della Consolazione, furono assoldati apposta ed accaparrati artisti veri e propri.

Pinelli, Agrizi, Montagnoli, Della Bitta, ecc. composero e modellarono le figure. Pinelli in via Giulia eseguì nel 1809 "I tre fanciulli di Babilonia nella fornace ardente" e fu la sua prima rappresentazione, cui seguirono altre nel 1812, 14, 17, 20, 24, 25, 26, 27 e finì nel 1832 con "La peste in Palestina al tempo di David".

L’Arciconfraternita faceva eseguire anche oratori musicali, anzi fu una delle prime ad introdurla dopo i Filippini.

Chiesa di Santa Caterina da Siena – Sul lato opposto della via, oltre la chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte, vi è quella di S. Caterina da Siena edificata nel 1526 [13]  dalla colonia Senese che s’era stabilita in via Giulia, come la Fiorentina,  e che, come questa, non mancava di organizzare feste.

In quella organizzata per celebrare la nomina di Marcantonio Zondadari a Gran Maestro dell’Ordine di Malta, oltre ai due archi di trionfo elevati in onore dell’eletto e l’apparamento (l’addobbo) della strada, fu fatto buttar vino dal Mascherone “fino alle 4 di notte”, e vicino alla fontana “di Ponte Sisto si sparò una gran macchina di fuoco artificiale” e tutta la via fu illuminata e “volle tutta la nobiltà romana fare per la strada Giulia il suo passaggio con la mostra delle gale (abbigliamento) più preziose e delle più ricche carrozze”. 

Chiesa di Santo Spirito dei Napoletani - Sulla sinistra della via è invece la chiesa dello “Spirito Santo de’ Napoletani”. Il tempio, che nel XIV sec., era detto: Ecclesia  S.  Austerii  de  campo  Senesi”,  fu  poi  dedicato  alla  martire  d’Ostia S. Aurea (II sec. d.C.) e sotto Pio V (Antonio Michele Ghislieri - 1566-1572) chiamato “S. Aurea in strada Julia” con annesso un monastero di monache.
Le monache si trasferirono in S. Margherita in Trastevere (vedi piazza di Sant’Apollonia - Trastevere) quando la chiesa “ridotta a cattivi termini, nel 1572, fu data alla Natione de Napoletani che la spianarono e vi fecero la chiesa dello Spirito Santo[14].
Vi sono sepolti: l’unica figlia di Francesco II, morta a palazzo Farnese, dove il sovrano s’era rifugiato dopo la fuga da Gaeta [15] ed i suoi genitori.

San Filippino - Proseguendo, si ha a destra, quasi dirimpetto alle carceri nuove, la piccola chiesa di S. Filippo Neri, detta, dal popolo, di San Filippino. Fu intitolata prima a San Trofimo e poi a San Filippo Neri ed è l’unica in Roma ad avere questo eponimo. Fu fondata da un guantaro fiorentino, Rutilio Brandi, che vi raccoglieva una congregazione delle Sante Piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo e vi mise, a proprie spese, un conservatorio di zitelle povere e pure e un piccolo ospedale per sacerdoti infermi.

Ha un crocifisso di arte medioevale proveniente da San Pietro ed un ricco reliquario non voluto consegnare dal Rettore nonostante l’ordine di Pio VI (Giovanni Angelo Braschi - 1800-1823).

Altra chiesa è quella di S. Maria del Suffragio edificata nel 1616, quando la compagnia omonima, fondata circa nel 1592, abbandonò la vicina chiesa di San Biagio, ove teneva l’oratorio dei fratelli.

S. Biagio, detto “de Cantu secuto” - dalla secca che il Tevere lasciava in quel punto, chiamata dal popolo “Seccuta” oggi “polverino" e “caput” per aver essa inizio in quel luogo, si corruppe ancora nel suo attributo: “Caput seccutae” diventò “gastru secuta”; “gatta secuta[16]; “cantu securo”; “cantu secuta”; “de canto secuto”; ecc.
Il tempio si trova presso l’attuale palazzo Sacchetti (vedi più avanti), e nell’interno si legge un’epigrafe che ricorda la riedificazione della chiesa fatta nel 1072, a cura dell’abate dell’annesso monastero, ch’era una delle 20 abbazie di Roma.

In una relazione sullo “stato temporale delle chiese romane" nella seconda metà del XVII sec. è scritto:
Da chi fosse fondata non si sa, ma si sa essere una delle chiese antichissime di Roma e che fusse il tempio di Nettuno....Non ha organo: il campanile è di struttura antica con due campane, una assai grande. Ha 5 sepolture; ha il cimitero vicino alla sacrestia circondato di un muro con una croce grande di legno et altre piccole di ferro....
Nel XV sec. per mancanza di monaci fu ridotta a commenda (amministrata da preti secolari) fino al 1439, quando passò alle dipendenze del capitolo vaticano diventando parrocchia.
Sotto Eugenio IV (Gabriele Condulmer - 1431-1447) la reliquia della “gola di S. Biagio”, che v’era custodita, fu trasferita in S. Pietro e sotto Niccolò V (Tommaso Parentucelli - 1447-1455) la chiesa tornò ad essere commenda e tale rimase fino al XVI sec. quando ripassò fino al 1836 al capitolo di S. Pietro. Gregorio XVI (Mauro Alberto Cappellari - 1831-1846) l’affidò agli Armeni che dimoravano presso Santa Maria Egiziaca (Tempio rettangolare di Portumno a campo vaccino) e che l’officiano tutt’ora.

Si dice adesso San Biagio “della Pagnotta” dall’uso che v’era, il giorno della festa del  santo  eponimo,  ai  3 di  gennaio,  di  distribuire  al  popolo  dei  piccoli  pani benedetti, così come si praticava in S. Biagio de’ Materassari, in vicolo del Divino Amore ed altre chiese.

Ultima, a sinistra della strada è la chiesa della Nazione Fiorentina, detta perciò San Giovanni de’ Fiorentini. (Vedi Piazza dell’Oro - Ponte)

Dopo la parte retrostante del palazzo Farnese, accanto alla chiesa dell’Orazione e Morte, è il Palazzo Falconieri.
Quest’ultimo è il risultato di numerose modifiche effettuate da diversi proprietari a cominciare da una casa merlata di monsignor Cenci,  passata  poi  agli  Odescalchi, ai Farnese (1606)  ed  ai  Falconieri (1636), che  abitavano  allora  in Banchi.[17].
I Falconieri [18], famiglia Fiorentina venuta in Roma nel ‘500 [19], esercitava la mercatura e una banca, cui arrise la fortuna con l’appalto del sale.
Essi rinnovarono interamente il palazzo ad opera del Borromini (1599-1667) che lo rese quale si vede oggi.
Nel palazzo, ospite del fratellastro cardinale Fresch, abitò la madre di Napoleone, Letizia, prima di acquistare il palazzo d’Aste (ora Misciatelli) a piazza Venezia. Fino alla sua elezione a papa (1878) vi rimase il cardinale Gioacchino Pecci (Leone XIII 1878-1903).

Palazzo Ricci - Più oltre a destra, il retro del Palazzo Ricci [20]  

Carceri Nuove - A sinistra “nel sito che è in quell’isola di case che comincia da strada Giulia, avanti la fabbrica nuova, dietro la chiesa di S. Lucia, con includervi piazza Padella e strade vicine con le altre case a piedi di quella, che stanno sulla riva del Tevere...[21], Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphili - 1644-1655), per sopprimere le carceri di Corte Savella e Tordinona, affidò ad Antonio Del Grande (1607-1679) la costruzione delle nuove prigioni in via Giulia, che furono dette per questo "le Carceri nuove" [22].
Iniziati i lavori il 30 aprile 1647 furono completati nel 1655, quando dal 7 aprile era già papa Alessandro VII (Fabio Chigi - 1655-1667).

Infatti, il penitenziario fu usato, come tale, solo nel 1657 [23]. In data 24 novembre di quell'anno, infatti, scrive un cronista: "Lunedì mattina dalle carceri di Tordinona vennero trasmesse alle Nuove di strada Giulia tutti i prigioni che vi erano, eccettuati gli infermi, e sarà parso loro di  passare dalla capanna alla villa, perché questo luogo, fabbricato con grande spesa, riesce comodissimo, di bona aria e sommamente a proposito".

Se il trattamento dei prigionieri provenienti da Corte Savella e da Tordinona fu e si mantenne  poi  [24]  “più mite”,   come  dice  l’epigrafe  posta  sull’ingresso dell’edificio, quanto alla sicurezza [25], non sembra che fosse poi tanta se in un “Avviso di Roma” è scritto: “Scappano felicemente 15 persone condannate al Remo; per essere state ripigliate nelle chiese, corrono pericolo di non fare più il viaggio di Civita Vecchia (imbarco sulle galere), ma solo quello di Ponte" (la piazza delle esecuzioni).

Pure l’utile pubblico non dovette esser certo molto rilevante giacché “l’aristocratica via, che era allora già in decadenza, finì di perdere la sua caratteristica, appunto quando vi furono sistemate le carceri”, “cosa che non piacque ai romani, perché esse vennero a deturpare una delle più belle strade della città, essi osservarono pure come sulle pareti tutte lisce, il cornicione, profondamente scusciato (a sbalzo), grava come il coperchio di un sarcofago, e la porta ravvicina in alto i suoi stipiti, simili a quelli di una tomba egizia”.

Anche alle carceri nuove, come già nelle vecchie [26], fu istallata la conforteria, dove i condannati alla pena capitale venivano accostati dai Fratelli della Misericordia “incaricati di assistere i condannati a morte”.

All’ultimo piano dell’edificio, un curatore notificava al condannato, che gli era stato condotto davanti a mezzanotte, “Il fisco ti cita a giustizia a ora certa”.
Dopo che un notaio ne aveva registrato il testamento, il reo veniva introdotto nella suddetta “conforteria” dove “i fratelli”, dopo averlo abbracciato e “resigli i più umili servigi”, lo confortavano e preparavano a ricevere i carismi della Religione Cristiana ed in forma di Viatico l’Eucarestia, perché il morituro non doveva “stare senza un qualche conforto di cibo e bevanda”.

Dalla prossima chiesa di S. Biagio "de cantu secuto", dov’era il loro ospedale di San Giovanni della Misericordia, prima che si trasferissero in via S. Giovanni Decollato, altri fratelli, ascoltata la messa, si avvicinavano al vicino carcere: “Precede la lugubre e devota processione un grande crocifisso, che ha sopra un drappo nero ed è portato da un fratello in mezzo a due altri, che recano nelle mani torce accese di cera gialla”. Giunti alla prigione, il condannato assistito da un sacerdote saliva sulla carretta e gli erano a fianco i confortatori.
Avanti alla carretta, precede la Compagnia salmodiando con voce roca: "Miserere, miserere....”. Sulla piazza di Ponte “il paziente scende in una camera che è parata a nero e dicesi anche questa Conforteria, e torna a pregare. Giunta l’ora, il ministro della giustizia gli benda gli occhi ed egli, sempre in mezzo ai suoi confortatori, sale il patibolo... Scende il ferro, e la giustizia si compie”.

Solo all’ultimo atto partecipavano i fratelli, ma....l’agonia del condannato era più lunga, perché dal 19 marzo 1594 un “avviso” diceva: “Vuole hora Nostro Signore che quelli che saranno condannati a morte per giustitia in Roma, habbiano tempo 36 hore a disporre dell’anima et cose loro in mano de’ cappuccini, et poi la notte precedente al patibolo si diano in mano ai confortatori soliti Fiorentini”.

In certe ricorrenze la Compagnia della Misericordia aveva la facoltà di far graziare uno o due condannati l’anno, e questo avveniva con tanta pompa che per vedere qualcuno dei graziati “fu tale il concorso che non si capeva per la strada, cosa non più veduta”.

Oggi il penitenziario è sostituito da quello di “Regina Coeli” e nell’edificio (carceri nove) vi è stato collocato il museo criminale [27].  Le nuove carceri (Regina Coeli) furono affidate anche loro alla Compagnia della Carità, che prendendone possesso nel 1658, l’ebbe "in enfiteusi perpetua per l'annuo canone di scudi 800, frutti di Luoghi del Monte del Sale [28], creati per l'edificio di via Giulia, a scudi quattro ed una libra di cera all'anno".

Il gioco del pallone - L’area, rimasta scoperta dalla mancata costruzione del tribunale, fu ceduta, in parte, nel 1519, a Francesco del Nero che vi costruì delle piccole case ed al lato opposto i Ruspoli fabbricarono una casa, mentre lo spazio scoperto fra i due acquirenti, largo palmi 27 e lungo 90 “lo acconciò all’uso del gioco del pallone il Matto dei Caravaggi (Michelangelo Merisi), architettore o piuttosto capomastro di quella medesima casata, che ne diede in quel torno tanti dei valentissimi”.
Fu questo gioco l’antesignano di quello che fu poi svolto a piazza della Pilotta, via Pallacorda [29] e a via dell’Orto di Napoli, ora via d’Alibert [30].

Il giuoco si generalizzò: oltre ai nobili che lo giocavano nei cortili dei loro palazzi, come i Farnesi, gli Orsini a Monte Giordano, i Mazzarino a Montecavallo, i Cesarini all’Argentina ecc., anche il popolo fu autorizzato a giocarlo, durante il carnevale , limitatamente ai Banchi, sulla pubblica strada.[31]

Un banditore, sulle scale della chiesa di S. Celso, annunziava: “Si dichiara intendersi il detto nome di Banchi dal vicolo del Pavone, presso al palazzo della Cancelleria per la strada detta di Banchi fino in Ponte, e dal palazzo di S. Biagio per strada Giulia e via Florida e dal vicolo del Pavone per la strada di Monte Giordano, che viene alla Zecca [32] e da Monte Giordano dalla strada di Panico fino in Ponte, comprendendosi la piazza dell’Altoviti e l’altra che va verso Tordinona (oggi sparite)”.
Un editto però del 6 aprile 1600 limitava ancora il gioco, perché anche in queste strade suddette “si vieta di giuocare a palla, pallone, pilotta e piastrella, presso i monasteri.

Ma prima che fosse adibita a sferisterio (Campo da gioco per il pallone), l’area ch’era compresa nell’orto di proprietà del monastero di S. Biagio, passata poi ai de Lenis, aveva una fornace ed in fondo una mola, ch’era stata concessa ai Farfensi nel 1012 e che nel XV sec. fu del Capitolo Vaticano.

L’istituzione del traghetto, che dalla riva prossima alla Mola portava al porto di San Leonardo in Settignano, risale all’anno 1414. La barchetta dette poi il nome alla via (via Barchetta) che da via Monserrato, attraverso via Giulia, porta direttamente al Tevere.

Il palazzo, oggi delle Preture [33], come si legge sulla piccola lapide murata sul bel portone arcuato e bugnato, è dovuto a: “Cosimo Medici Duci Floren. Pacis Atque Justiciae Cultori[34]. Sembra l’abbia costruito in questo punto per la vicinanza di un Oratorio e di un carcere “per quelli che avessero da saldar conti con le leggi della patria” ed anche per la contiguità del Consolato che risiedeva in un bel palazzo quattrocentesco, “con una corte circondata da porticato ed arcate sorrette da colonne”. 

Fu in esso, che, dopo il supplizio, fu ricoverato il cadavere di Beatrice Cenci ”netta d’ogni bruttura, rivestita di bellissimi abiti, sopra un letto di fiori, coronata di rose” prima di essere trasportato a S. Pietro in Montorio.
L’edificio passato in seguito ai Chiarelli ha perduto completamente i chiaroscuri cinquecenteschi che l’ornavano preziosamente.

Il palazzo della famiglia Sacchetti [35], nominati da Dante fra le antiche famiglie fiorentine:


...Grande era già la colonna del Vaio,
Sacchetti, Ginochi, Fifanti e Barucci,
e Galli, e quei, ch’arrosan per staio
”.

sono però di origine romana: ”Nobile Sacchetti genus est, et moenia primus Romanus sanguis tenuit”.
Palazzo imponente che ha sul fronte una lapide che ricorda come esso fosse la “Domus Antonii Sangalli Architecti – MDXLIII”.
Il Sangallo, sulla facciata dell’edificio, per riconoscenza a Paolo III, pose lo stemma del Pontefice con l’iscrizione: “Tu mihi quodcumque hoc rerum est”.
Alla morte dell’artista [36] il palazzo fu acquistato dal cardinale Ricci da Montepulciano che lo ricostruì ampliandolo. Fu dei Ceoli che hanno lasciato traccia del loro nome in quel vicolo del Cefolo che sussiste tuttora (Vedi Vicolo del Cefao - Ponte).
Alla morte di Tiberio Ceuli, “mercante tenuto ricchissimo” si appurò che aveva lasciato la sua azienda “in tanti intrichi, onde veniva in acconcio il proverbio fiorentino – dammelo morto".
Dopo 3 anni il banco fallì ed una cronaca dice: “Questi Ceuli sono spariti e il Papa ha concesso al tesoriere la discussione dei beni” e poiché “alcuni, avendo depositato le doti delle loro mogli sopra il banco, sono stati da monsignor auditore di Camera posti in possesso del suo palazzo di strada Giulia, ma con l’obbligo di contribuire al cardinale Acquaviva 5.000 scudi sborsati da Sua Signoria Illustrissima sopra detto palazzo”. E poiché: “Il cardinale Acquaviva, quando stava per partire è stato astretto dai creditori del signor Cevoli per il pagamento del palazzo, onde ha fatto esito di molte cose familiari per quietarli, anzi si è minorato da una cedola di banco non legittima; ma perché non se ne hanno interamente li particolari, si tacciono”.  Sic transit....

Casa di Raffaello - Dall’altra parte della strada un palazzetto, sulle finestre del piano nobile del quale è scritto: “Posseduta da Raffaello nel 1520”. Ma in effetti, il Sanzio,  dopo  aver  acquistato  il terreno  “di 217  canne  e  mezza”  per  la costruzione, morì senza averne potuto prendere possesso.

Altri artisti abitarono la via, fra i quali Benvenuto Cellini che, come narra nella sua vita: “tenevo una casetta in strada Julia” e dice ancora che: “Un giorno ho preso il cammino per istrada Julia, isboccai in sul canto della chiavica: dove Crespino bargello con tutta la sua sbirreria mi fece incontro, e mi disse: “Tu se’ prigion del papa....”.

La casa detta di Paolo III è al n° 93 di via Giulia ed ha sul fregio della finestra centrale l’iscrizione: “Paolo III Pont. Max.” e, sopra al fregio, lo stemma del Pontefice e ai lati 2 stemmi di casa Farnese, uno con insegne cardinalizie.

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[1] )            La “via Magistralis”, dai notai che vi stavano; fu anche detta "via Recta": “Trovansi nella lettura di carte antiche, senza numero, le vie sotto la dicitura di rette e tante dirle potremmo quante erano quelle che direttamente tiravano” (Pasquale Adinolfi).

[2] )            Già nel 1511 il papa si ammalò gravemente, tanto che si parlò di prossima fine.
I Baroni romani, in vista della sede vacante, rialzarono la testa ed il giovane vescovo Pompeo Colonna si portò sul Campidoglio per bollare le colpe del papa. Ma i suoi propositi non poterono avverarsi quando si ebbe notizia che “una pesca e un buon bicchiere di malvasia avevano operato il miracolo di ridare la vita al moribondo” che subito riportò l’ordine in città. Sembra che a questo episodio si debba ricollegare la nomina dei capi delle due famiglie Colonna e Orsini ad “Assistenti al Soglio” (Nuccio).

[3] )            Pasquino:

“quel che fero i Fiorentini
sarà eterno di memoria
de Luteri e de’ Calvini
Non so legge nella storia
Ogni papa di Firenze
porta fame e pestilenze”.

[4] )            Quando Leone X morì, l’oratore veneto Gradenigo, scrisse il 6 dicembre 1521 “Il Pontefice non ha lassato alcun danaro et facto il conto per il reverendissimo Armellino, che è il Camerlengo al collegio dei cardinali, è stato trovato questo Papa aver speso poi che fu creato dal 1543 al dì 11 marzo in qua,  4.000.000 et  500.000  ducati  et  aver  lassato  debiti  per  ducati  400.000”.

[5] )            Ludi Seculares = Furono fatti la prima volta da Valerio Publicola, console nel 209-508-507-504 a.Ch. (m. 503 a.Ch.), nei campi che lo scacciato Tarquinio (534-509 a.Ch.) possedeva lungo il Tevere e precisamente nella località detta “Terentium” o “Torentum” (forse da distruzione = a terendo) che si trovava all’estremità di quei campi. In questo luogo, da un sabino di Ereto di nome Valesio, che, avendo i figli malati, aveva avuto dall’oracolo l’ingiunzione di recarsi a Terento e di lavare i figli con acqua calda  dell’altare di Dite e Proserpina.  Sacrificò, secondo le prescrizioni, animali fulvi, celebrando per 3 notti giuochi e lettisterni (sacrifici religiosi).
Ed è su questo altare che Valerio Publicola celebrò un simile sacrificio nel 245-509 a.Ch., quando, scoperta la congiura in favore di Tarquinio, Valerio, fatto console invece di Collatino, consacrò al Dio Marte i campi del re fuggitivo, facendo gettare nel Tevere le messi già mietute, che formarono l’Isola Tiberina.
Secondo Zosimo (V sec.) sull’ara terentina era scritto: “Io P.Valerio Publicola ho consacrato a Dite ed a Proserpina il fuoco del Campo Marzio, e ho fatto giuochi a Dite e a Proserpina per la libertà del popolo Romano”.
Tali giuochi furono rinnovati a grandi distanze di tempo e detti perciò secolari. Caduta la Repubblica ed istituito l’impero, Augusto lo solennizzò rinnovando sacrifici e giuochi nel 738 a.U.c. / 16 a.Ch., quando ormai non se ne facevano più da 110 anni.

[6] )            Per l’istituzione, sotto Nerone, dei ludi quinquennali, vedi  Tacito XIV, 20.

[7] )            Fra le tante epigrafi composte da Pasquino:

“Qui Giulio II, pastor giace
Noto all’Italia e al mondo per furore:
Volse, fece, mostrò per farsi onore,
E’l spirito è in ciel, non so se in guerra o in pace”.

Il Pontefice volle essere sepolto, vestito di abiti nuovi e non vecchi, come era avvenuto di suo zio Sisto IV (1471-1484); e alle dita gli furono messi anelli del valore di mille ducati, perché "dicebat enim se recordari vidisse multos pontifices in abito eorum, a propriis adfinibus suis necessariis derelictos sic fuisse ut indecentes nudi etiam detectis pudibundis iacuernt”.

[8] )            Vedi “Piazza Padella” (Regola).

[9] )           Nel codice Barberini XXV, è riportata la descrizione che si leggeva su un fabbricato di fronte al ponte Sisto “ buona fabbrica e parte di travertino intagliato”: “Canto ponte Sisto in facciata dove sono li poveri nutriti, ch’andavano per Roma”, e sotto una pittura in Vaticano, che lo riproduce, è detto:

“Quaeris, cur tota non sit Mendicus in Urbe?
Tecta parat Sixtus, suppeditatque cibos”.

Infatti Sisto V apparecchiò questa casa, “Aedes vero tam sunt spatiosae, ut bis mille homines conmode capiant”, traslocandovi i mendicanti che erano prima alloggiati nel convento di S. Sisto Vecchio che era “monasterio di donne monache dell'ordine di San Domenico”. Vi erano stati collocati nel 1581 da Gregorio XIII (Ugo Boncompagni - 1572-1585) che aveva incaricato la Confraternita della Trinità dei Pellegrini di fondare un ospizio per i mendicanti, dopo che, inutilmente, il Governatore di Roma aveva nel 1557 ordinato che chi non avesse avuto una professione od un mestiere o non avesse beni nell’Urbe, dovesse allontanarsene “sotto pena di tre tratti di corda, della galera e della fustigazione”, .
La confraternita della Trinità dei Pellegrini indisse un censimento, nel termine di sei giorni, dal quale dovevano risultare la generalità degli accattoni “la sorte di impedimento et l'infermità, qualità e quantità dei beni” di più s’ingiungeva loro, di regolare le proprie faccende “acciò il giorno che dopo si determinerà e parimenti si pubblicarà, siano in ordine di andare processionalmente a Ponte Sisto, dove secondo il stato di ciascuno si provvederà al vitto, sanità et esercitio loro”.
Il 27 febbraio di quell’anno, gli accattoni entrarono processionalmente nel convento “con accomodamenti et distintioni necessarie, et si vedevano andare quelli che erano liberi accoppiati, ciechi guidati, et quelli che erano stroppiati, tirati in carretta dai medesimi mendicanti. Seguitavano 14 carrozze cariche di molti talmente stroppiati et infermi, che non si potevano condurre altrimenti. Spettacolo veramente pietoso, meraviglioso et forse non mai più visto... Erano i poveri mendicanti 850, fra maschi et femine, piccoli et grandi, quali, salendo et calando il Campidoglio con maggior trionfo (erano preceduti dai Confratelli della Trinità con torce e stendardi) che non fecero mai gli antichi Romani, finalmente giunsero al designato posto di Ponte Sisto, che furono ricevuti con gran pietà et carità”.

[10] )           Alla morte di Sisto V, benché Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini - 1592-1605) si occupasse dell’istituzione, anche personalmente, e visitasse spesso l’asilo, così come racconta un avviso nel 4 settembre 1596: “Il Pontefice lunedì sera da Monte Cavallo si trasferì all'hospedale delli poveri di Ponte Sisto, ove havendo voluto vedere il pane e vino, et odoratolo volse ancora visitare ogni cosa minutamente, havendo poi donati a quell’infermi uno scudo d'oro per ciascuno, et lasciati all'hospedale per elemosina 600 scudi con promessa ancora di volerlo provvedere di entrata talmente che sia sufficiente a mantenere quella povertà honestamente. Pure, a causa della nessuna volontà di lavorare dei ricoverati e dell'ostilità loro ad ogni disciplina, cominciò il decadimento dell'asilo e presto per Roma si videro “poveri mendicanti e in tanto numero, che non si poteva né andare né stare per le strade.....”.
Si provò a disciplinarli religiosamente e fu istituita una confraternita intitolata a Sant’Elisabetta o della Visitazione. I mendicanti, che, per esercitare il loro mestiere, dovevano appartenervi, ebbero come  loro sede,  prima la cappella annessa all’ospizio  e poi, l’oratorio donato da Paolo V (Camillo Borghese - 1605-1621), presso Santa Lucia del Gonfalone, la chiesetta dei SS. Cosma e Damiano in Banchi, poi detta oratorio di Santa Elisabetta dei Ciechi, restaurata sotto Sisto IV (Francesco Della Rovere - 1471-1484) e filiale di S. Pietro. Dalla sua appartenenza ai ciechi ed agli zoppi ebbe origine il detto Romano per designare una raccolta di poveri infelici: “La compagnia di Santa Elisabetta”.
Il loro Statuto stabiliva, tra l’altro, che "Nessun cieco o zoppo che non sia ascritto alla Compagnia potrà andare mendicando per Roma, né portare la bussola” che i mendicanti avrebbero dovuto “vivere sotto l'ubbidienza d’uno dei Signori Deputati da essi eletto per protettore” e così non avrebbero potuto essere catturati se non dai ministri del Tribunale dell’Emo Vicario, a cui solamente sono soggetti. Ogni anno “facevano una processione di penitenza, visitando quattro chiese”.
Tutti i “comuni” della Compagnia pagavano bajocchi due e mezzo mensili e gli “ufficiali” cinque.
I mendicanti forestieri non potevano far parte della compagnia “si permetteva loro talvolta nell'inverno di accattare e quindi rimandavansi al loro paese”.
La festa, il Camerlengo (uno storpio) il Signore ed il Guardiano (ciechi) giravano la città, “accompagnati da due violini, da una viola e da un poeta, e improvvisando, cantavano canzoni sacre”. A chi dava l’elemosina in compenso, offrivano una presa di tabacco macubino (al muschio) e tutto il denaro raccolto veniva portato all’oratorio. Da esso venivano prelevati “cinque Paoli per il poeta, tre per i suonatori e tre per i questuanti” a compensarli del lavoro fatto. Protettore della Compagnia fu sempre un Cardinale, e l’ultimo fu il Cardinale duca di York. La Compagnia cessò con lo scioglimento della Confraternita il due di Messidoro (20 giugno) del 1798. Alla restaurazione del Governo Pontificio furono inquadrati solo gli accattoni autorizzati a stare fuori delle porte delle chiese, in occasione delle 40 ore. Erano circa 40, patentati, che erano sorvegliati da un caporale che aveva l’obbligo di accertarsi che fossero tutti provveduti “dell'attestato di buoni costumi rilasciato dal parroco, e di avere ricevuto i sacramenti”.
Clemente XI (Giovanni Francesco Albani - 1700-1721) destinò una parte del Ricovero a conservatorio di giovani povere e Gregorio XVI (Mauro Alberto Cappellari - 1831-1846) “concesse l'ospizio all'ordine Gerosolomitano per assistervi i soldati pontifici infermi".
In seguito vi furono ricoverati sacerdoti malati o che si trovassero sprovvisti di casa e di beneficio. Il 2 agosto 1856 il palazzo, restaurato, fu riaperto e concesso dal Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti - 1831-1846) alla Congregazione dei 100 Preti. Sette furono i primi alloggiati, ma dopo quattro giorni ne morì uno. L’ospizio fu allora detto impropriamente “dei 100 Preti”, giacché questa Società, provvedeva unicamente all’officiatura delle cappelle rurali dell’agro. Per la sistemazione del lungotevere, il fabbricato fu abbattuto (Fu anche abbattuta l’annessa chiesetta di S. Francesco) e ricostruito più indietro con un portico antistante. (Per le opere pie di Roma: vedi la ristampa operata nel 1678 dai librari a Pasquino, all’insegna della Regina, Felice Cesaretti e Panbeni, del volume dell’abate Carlo Bartolomeo Piazza scritto e pubblicato nel 1679.)

[11] )          Vincenzo Pallotti è stato santificato nel 1951, istituì l’ottavario (spazio di otto giorni che precede o segue alcune solennità) dell’epifania nel 1836, in S. Andrea della Valle. Fu detto il nuovo S. Filippo Neri; fondò i Pallottini.

[12] )           Nel centro "una peschiera, longa circa 4 canne e larga 3 ½, tutta circondata da balaustri di peperino, piena d’acqua con una fonte in mezzo, di 4 conchiglie, 4 tartarughe, 4 puttini, un vaso mediocre in cima et una cinta di piombo con 5 bocchini che gettano acqua”.

[13] )           Venne ricostruita nel 1760. Nel catino dell’abside è dipinto il ritorno di Gregorio XI da Avignone.

[14] )           Annesso un ospizio “pauperum eiusdem nationis”. Ai lati della porta, lapidi che ricordano la visita di Ferdinando I nel 1818 e i restauri di Ferdinando II nel 1853.

[15] )           Mia nonna (la nonna dell’autore Giovanni Zitelli), da dietro una finestra del piano terra intese, per caso, questo dialogo fra il Re e il suo cameriere intimo: questi: “Signurì presto, presto ce ne riimmo a Napule”; il Re: “Si, dintu o’ pallone!”.

[16] )           “ad gatam o gattam secatam” forse dalla “pasta tagliata o scompartita”, che nel medioevo fu detta con vocabolo gallico “gata” che veniva distribuita dall’annesso ospizio di poveri.

[17] )           Perché esercitavano la professione di “Banchieri”.

[18] )           “Costanza Falconieri” – Costanza Falconieri (Nigra sum sed formosa) della famiglia di quei banchieri toscani, che avevano ingrandito la loro fortuna con l’appalto del sale. Costanza che, dicesi, ebbe carissimo il suo segretario Vincenzo Monti (1754-1828), fu, per la parte mondana, regina incontrastata dell’Urbe, e qui nel suo palazzo svolse attiva la sua azione.
Ambasciate e personaggi reali furono sontuosamente festeggiati esercitando essa quella parte del compito diplomatico che più facile si effettua da una bella donna. Una certa influenza esercitò pure sul Pontefice, si narra a questo proposito, che Giorgio (fra Barnaba) Chiaromonti, suo confessore, avesse dovuto a lei il cappello cardinalizio. Trovandosi il Chiaramonti in casa Braschi, ed alla presenza di Pio VI (Giovanni Angelo Braschi - 1775-1799) che stava vezzeggiando il piccolo pronipote, accadde che il piccolino, tolto il zucchetto dalla testa del Pontefice, lo ponesse sulla testa del frate. La principessa che era presente, interpretò a suo modo l'avvenimento e tanto insistette, che Pio VI finì col coprire del berretto rosso fra Barnaba, che nel 1800 gli successe sulla cattedra di S. Pietro [Pio VII (1800-1823)]. Come si sfogasse Pasquino che fin dall'elezione di papa Braschi aveva detto: "il Sesto all'infelice Roma fu sempre infesto - Ora il colpo di grazia glielo darà Pio VI".

[19] )           Nel sotterraneo della chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini è stata scoperta una sconosciuta architettura borrominiana, era il sacello funebre dei Falconieri precisamente nell’ipogeo della cappella maggiore. (Vedi pag.78 Studi Romani 1958).

[20] )           Vedi Palazzo Ricci in "Piazza Ricci" (Regola).

[21] )           Ammontare delle espropriazioni 10.947 scudi.

[22] )           Affinché, come diceva il pontefice, “si rendano sicure esse carceri, per essere in isola e vicino al fiume, et in miglior sito, ma anco ne seguirà l’util pubblico, e con maggior comodità si potran fare le necessarie funzioni”. 

[23] )           A causa della peste che infierì a Roma (1656) in quei due anni, fu usato “per stufa, dove venivano tutti quelli che havevano fatto la quarantena, tanto a S. Pangratio, quanto a S. Eusebio, et subito arrivati si facevano, dalli stufaroli deputati a posta, lavare da capo a piedi tutti, et poi si facevano vestire d’abiti puliti e venuti di fuori, dai loro parenti et amici, si rimandavano alle case loro, e li ministri di questo lazzaretto non uscivano mai di lì et erano ministri brutti con le guardie necessarie”.

[24] )           I Papi visitarono spesso le carceri. Così nel luglio 1824 Leone XII (Annibale Clemente della Ghenga - 1823-1829), recatosi alle Carceri Nuove, dopo aver assaggiato il rancio dei prigionieri, multò di quasi 1.500 scudi il fornitore del pane, per la cattiva confezione.

[25] )           Anche in Città non dovette essere gran ché: “4 febbraio 1693 – non ostante che siino stati racchiusi li birbanti nell’Ospitio, esiliati 3.000 vagabondi e da Monsignor Governatore mandati in galera 400 ladri, oltre la terribile bravata fatta agli sbirri  (tenevano  mano  ai  ladri), ad ogni modo alla giornata si sentono continui furti robbando sino le ferrate delle cantine "(Manoscritto.787 Biblioteca Vittorio Emanuele). Sotto Innocenzo XII (Antonio Pignatelli - 1691-1700) "gran poveri fuggirono dall’hospitio di S. Giovanni. Hora Nostro Signore fa fare le carceri in quei soffitti del Palazzo per li contumaci et dà alli sbirri 1 paolo per ogn’uno dei fuggitivi che conducono in prigione, et hieri ne presero più di 30" (Manoscritto - ottobre - 3358 Biblioteca Vittorio Emanuele).

[26] )           I condannati alla pena della Berlina uscivano dal carcere per essere esposti per le vie di Roma.  Questa pena, durò fino alla metà circa del XIX secolo: “30 luglio 1840 – Questa mattina sono stati condotti per Roma sei condannati alla galera per ladri, cinque dei quali sopra un carretto e uno a piedi legato dietro il medesimo, con un cartello in petto, in mezzo agli urli e ai fischi del popolo e sono passati anche per il Corso. Uno di costoro all’uscita delle carceri ha opposto resistenza grandissima, ed ha ferito con coltello due dei guardiani, uno dei quali malamente” (Diario Chigi).

[27])             Fra gli oggetti esposti nel museo v’è il forchettone da scalco col quale il romano Antonio De Felice, cappellaio in via dei Cesarini provò ad attentare alla vita del cardinale Giacomo Antonelli il 12 giugno 1855.

[28] )           I "Luoghi di Monte", istituiti da Clemente VII (Giulio de´ Medici - 1523-1534) divisi in vacabili, cioè da estinguersi entro un tempo determinato (equivalenti dei Buoni del Tesoro attuali, annuali e pluriennali), e non vacabili, ossia perpetui (rendite), erano fondati su qualche entrata dello Stato Ecclesiastico "cioè sopra diritti, gabelle e gravezze dovute al Principe, e sono di diverse sorti e di diversi cognomi, conforme alle occasioni che da’ Pontefici per li bisogni della Chiesa e dello Stato vengono eretti. E tanto gli uffici quanto li Luoghi di Monte si vendono". Ogni Luogo generalmente valeva 100 scudi; l’annuo frutto variò secondo le circostanze. "Il primo Monte corrispose il 10%; il secondo l'8%”. Il debito era interno e l’esportazione dei titoli era proibita, come quella dei denari, oro, argento monetato di qualunque genere.

[29] )           Il gioco è di origine Italiana e francese.

[30]         ”I giuocatori battevano a piano terra e senza trappolino o altra scesa; il pallone pesava trenta once al sottile, e misurava il diametro di un piede romano e di un’oncia per giunta. Davano col braccio fasciato da un panno di lino o di lana stretto con alcune cordicelle.
Fu trovato più tardi il bracciale di legno, e sul primo fu di frassino assodato di pece o di corde attorno tiratevi a gran forza. Appresso andarongli aggiungendo alcuni pezzetti di legno formati a figura di punti di diamanti. Ma la sua impugnatura restava sempre più debole, giacché terminava in quadro, e la mano mal guardata molti colpi non poteva osare senza pericolo. Coll’andar del tempo e col ripetersi degli esperimenti, si giunse alla perfezione del bracciale
”.

[31] )           Nel secolo scorso (‘800) il giuoco del pallone si teneva allo Sferisterio Sallustiano nella strada Pia, presso il palazzo Barberini.  Nel XVIII secolo poi si giuocava anche in Vaticano nel cortile del Belvedere, tanto che, durante il Conclave (che si protrasse dal 19/2 al 17/8/1740), dal quale uscì Benedetto XIV (Prospero Lorenzo Lambertini - 1740-1758), il pallone fu giuocato per distrarre gli eminentissimi appunto nel cortile del Belvedere. Anche Leopardi cantò un vincitore al giuoco del pallone.

[32] )           Vedi “Vicolo dell’Oro” (Ponte).

[33] )           Al n°79 di via Giulia.

[34] )           Sui fregi delle finestre del piano nobile, iscrizione cancellata: MEMOR......

[35] )           Palazzo, al n° 66 della strada, del XVII sec. La fontana è dei Sacchetti.

[36] )           Oberato di debiti “gli eredi e i figliuoli vissero, d’indì innanzi (da allora in poi), in molta povertà e i loro discendenti si rimisero all’industria del fornaciaio” (Amati).

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Lapidi, Edicole e Chiese :

- Via Giulia
- Chiesa di S. Maria d´Orazione e Morte - Interno
- Chiesa di S. Maria d´Orazione e Morte - Lapidi
- Chiesa di Santa Caterina da Siena
- Chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani
- Piazza S. Vincenzo Pallotti

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