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STRADE DELLA ROMA PAPALE

Piazza del Popolo  (R. IV – Campo Marzio) (Vi convergono: via Flaminia, Viale Gabriele D’annunzio, Via del Babuino, Via del Corso, Via Ripetta e Via Ferdinando di Savoia)

Una tradizione farebbe derivare il nome della piazza dal fatto che, in antichi tempi, vi sarebbero stati dei filari di pioppi “populi”. Altre versioni dell’origine toponomastica farebbero riferimento all’Oratorio eretto, nel 1099, da Pasquale II (Raniero Ranieri - 1099-1118), per purificare la località dai demoni che infestavano un grosso albero di noce che si credeva ombreggiasse una tomba ritenuta di Nerone, e, poiché Gregorio IX (Ugolino dei Conti di Segni - 1227-1241) vi fece trasportare una immagine della vergine, la nuova chiesa, trasformata e ampliata a spese del popolo romano, fu detta S. Maria del Popolo.
La denominazione “del Popolo” venne poi estesa alla porta ed alla piazza.

Altri toponomasti attribuiscono poi la denominazione al fatto che intorno alla cappelletta si raccolsero gruppi di case, il cui insieme costituì un “popolo”, come nel medio-evo erano chiamate le parrocchie e tale denominazione fu poi estesa dalla chiesa alla porta e molto tempo dopo alla piazza.

Porta del Popolo - Così chiamata dal  secolo XIV, era la porta Flaminia che, nelle mura Aureliane (270-275), compiute da Marco Aurelio Probo (276-282), corrispondeva alla porta Rotumena del recinto Serviano.

Porta Flamminea quae modo appellatur Sancti Valentini“ nel XIII sec., per la basilica di San Valentino che si trovava circa al primo miglio della Flaminia, su fianco di quelle colline chiamate, nel medioevo, di “Pelaiolo”. Questo nome, già nel XIV secolo, si era trasformato in “Paioli” o “Perajoli” e, nel 1461, in “Pariolo[1].

Il nome di S. Valentino venne attribuito alla basilica dal sottostante cimitero del martire. Nel secolo IV, fu eretta una chiesa da Giulio I (337-352), trasformata poi in una splendida basilica dai papi Onorio I (625-638) e Teodoro (642-649).
Aveva annesso un monastero, comparso per la prima volta in una Bolla di Sergio II (844-847), che fu recinto con un muro e fortificato nel 1060 [2], perché al di fuori delle mura aureliane. Ma, nel XIII secolo, dovette essere abbandonato, e della Basilica, ch’era prospettante sulla Flaminia, con un nobile ingresso e più portici, restavano pochi avanzi nel secolo XVI. Fin dal secolo XIII, però, il corpo del martire era stato di là tolto e portato in S. Prassede, nella cappella di suo fratello Zenone. (vedi via di S. Prassede - Monti)

Flaminia porta est Populi” ed a metà del ‘600, scriveva l’Alveri: “verte controversia grandissima tra gli scrittori di questa porta, circa il sito di essa: però li più vogliono che fusse sul colle, che, dalla parte d'Oriente, s'alza poco lungi dal sito dove hora si ritrova, e che poi in progresso di tempo, perché il cammino per quella porta riusciva scosceso è difficile, prendessero motivo gl’imperatori o li pontefici di trasportarla; a pubblico comodo, nel piano, dove di presente si vede”.

Cosa che conferma Procopio di Cesarea (VI secolo), quando scrive, che l’assalto dei Goti “risparmiò” altresì la porta Flaminia [3], “posta in dirupato suolo, di malagevole accesso ed avente alla sua difesa una schiera di guerrieri, chiamati Regi, cui presiedeva il duca Ursicino”.
Ma si deve pensare ad uno scambio di nome fra Flaminia e Pinciana, perché nel 1877, durante i lavori di adattamento della porta, coordinati dal Comune, furono trovati avanzi di due torri rotonde simili a quelle delle altre porte rifatte dall’imperatore Onorio nel 402.

Ridotta in cattivo stato nel secolo XV, nonostante il restauro fatto alla porta “dello popolo” da Niccolò V (Tommaso Parentucelli - 1447-1455), nel 1450, Sisto IV  (Francesco Della Rovere - 1471-84) provvide ad integrarla, facendo riparare tutti i danni arrecatile dagli assedi subiti nel tempo.

Considerando Pio IV (Giovanni Angelo Medici - 1559-1565), che un buon pontefice è tenuto non meno di mantener la città abbondante di viveri, che di renderla munita contro le incursioni dei nemici, s'applicò con tutto l'animo al risarcimento delle mura, et delle porte di Roma, e in particolare della Flaminia, che non solo restaurò, ma eresse totalmente dai fondamenti, come ben ne fa chiara dimostrazione la stessa forma e prospettiva presente, che neppure ombra ritenendo dell'antica maniera, fa conoscere essere stata fabbricata in differente secolo” (Alveri).

I lavori, che costarono 11.755 scudi, cominciarono nel 1562, affidati a Giacomo Barozzi da Vignola che, con l’indirizzo di Michelangelo Buonarroti, la condusse a buon termine, adornando la parte esterna, di colonne e di molti altri fregi, “con bellissimo ordine e magistero tra loro conpartiti”, e per memoria vi scolpì in marmo, sopra l’arco della porta, la seguente iscrizione: “Pius IV Pont. Max. Portam hanc amplitudinem extulit, viam Flaminiam stravit. Anno III”.

Dell’opera si è detto che: “la fabbrica così vaga e sontuosa, che di maestà può gareggiare con le migliori di Roma”.

Il Vasari (1512-1574) dice di Michelangelo (1475-1564) che: “Ricercato a questo tempo dal Papa per la Porta Pia, d'un disegno ne fece tre, tutti stravaganti e bellissimi, che il Papa elesse per porre in opera quello di minor spesa, come si vede oggi murato, con molta sua lode; e visto l'umore del Papa, perché dovesse restaurare le altre porte di Roma, gli fece molti altri disegni”.

Ma si crede che la porta del Popolo non fu disegnata dal Buonarroti e che egli si limitò solo a collaudarla.

Il Lanciani riferisce che, per la costruzione, i materiali impiegati furono prelevati dalle fabbriche vaticane, dalle palatine di S. Teodoro, dal tempio del Sole al Quirinale, dal Circo Massimo, dal teatro di Pompeo, dalla stazione IV dei vigili (a San Saba), dal ponte Emilio (ponte Rotto), dal sepolcro creduto di Alessandro Severo (Monte del grano a porta Furba) ed altre rovine.

Le quattro colonne, fiancheggianti la porta, appartennero infatti all’antica basilica Vaticana medioevale [4]; alle quali, più tardi, furono aggiunte, nel 1655, da Alessandro VII quando restaurò e abbellì la porta, le due statue di S. Pietro e di S. Paolo. Queste, che non erano piaciute all’abate di Montecassino, che le aveva ordinate per San Paolo extra muros, furono acquistate circa il 1655 dal Papa, per 1000 scudi, e collocate dove ora si trovano.

Racconta felice Grimaldi (1887): “Alla porta del Popolo, si vedono due statue: di S. Paolo e di S. Pietro, il quale tiene un libro che mostra allo spettatore, come Mosè mostrava le tavole della legge nel discendere dal Sinai; San Paolo invece leva la mano in direzione della via Flaminia”.

I Romani hanno una maniera pittoresca di spiegare questa differenza di atteggiamento:

È qui che si fanno le leggi” - dice vibratamente S. Pietro
Ma è fuori di qui che si rispettano” - risponde San Paolo.

Fuori della porta, a sinistra [5], è collocata la più bella iscrizione, che ricordi, fra le tante, un’inondazione: “Huc Tiber audaci pervenit spumeus unda/ Et speciem immensi visus habere maris/ Prata, agros, villasque absorbuit ore voraci, Romaque sub fluvio semisepulta  dolet. Tuque doles etiam mea mezamicia tellus Obrutaque (comportarsi bene) in fluctu pristina forma iacet/ Sed tamen in miseros pietatis flamma quirinae/ Extingui Tiberis fluctibus haud (non) potuit: Nam celer agricolis medias per fluminis unda/ Detulit (portò) obsessis novis ab Urbe dapes (vivande). Octav. Idus novemb MDCLXXXVI”.

Da Alessandro VII (Fabio Chigi - 1655-1667), fu pure dato incarico al Bernini di sistemare il lato interno della porta, sulla piazza del Popolo.
Egli la coronò con un motivo ornamentale preso dallo stemma medesimo del pontefice, accordando cioè, su un enorme festone sostenuto da due cartocci, i monti aguzzi sormontati dalla stella a otto razzi. Inferiormente collocò una larga lapide su cui si legge l'iscrizione -Felici Faustoque Ingressu”.

Prima a godere dell’accogliente motto fu Cristina di Svezia :

“Regina senza Regno
Principessa senza sudditi
Generosa senza un soldo
Politica senza ragion di Stato
Formidabile senza forze
Novella cristiana senza fede

come la definì Pasquino.

A dì 23 dicembre (1655), fu tempo cattivo e piovoso et finalmente la Regina fece l'entrata la sera alle hore 22 (15 odierne) dalla porta del Popolo, essendo tutte le estrate (strade) apparate... Il Papa gli mandò incontro una chinea (cavalla) guarnita di velluto turchino e argento. Fu ricevuta fuor della porta dal magistrato romano, che l'aspettò nella vigna di papa Giulio (nella corte della villa padronale), nella corte della  quale era stata posta una bella iscrizione in sua lode. Alla porta del popolo fu posta un'altra iscrizione la quale, da poi, fu scolpita, quando papa Alessandro restaurò et adornò la detta porta[6].

La cavalcata fu bellissima, et della Regina cavalcò sopra la chinea al modo di donna, vestita alla francese, di colore turchino ricamata di oro, con il cappello in testa, con un cordone d’oro. Dicono che sia stata sempre solita di cavalcare a modo di huomo et non da sedere sopra il cavallo, come ora a modo di donna”.

Il 26 dicembre, dopo opere di abbellimento, fu albergata nel palazzo Farnese, ma, a causa della peste, partì da Roma il 20 luglio 1656, ed al suo ritorno, andò al palazzo Corsini alla Lungara, ove morì il 22 marzo 1689” [7].

Suo esecutore testamentario [8] fu il cardinale Decio Azzolini che, secondo un epigramma:

« Mais Azolin dans Rome
Sut charmer ses ennuis.
Elle eût, sans ce grand homme
Passé des tristes nuits
 ».

Prescindendo  dalle  truppe  nemiche, vi fecero ingresso:  Roberto il Guiscardo, sotto Gregorio VII (Ildebrando di Soana - 1073-1085), i Colonna, il 15 gennaio del 1400 al grido “Viva il popolo e muoia Bonifacio IX tiranno”. Il più maestoso di questi ingressi è quello che vi fece, nel 1494, Carlo VIII [9] con migliaia di soldati e 36 cannoni di bronzo, ciascuno lungo otto piedi e pesanti 6000 libbre, colubrine e falconetti (pezzo d’artiglieria). Sfilata che durò oltre 6 ore.

Nel 1876, per favorire la viabilità, il Consiglio Comunale fece abbattere le due torri che fiancheggiavano la porta, e, al loro posto, aprì due fornici con la preventivata spesa di 180.000 lire. Poiché la scalinata della chiesa impediva il transito attraverso il fornice di sinistra, la fece accorciare. Il commento all’opera lo dettero questi versi (Giggi Zanazzo):

“Me piace sì, me carza ‘sta penzata;
belle ‘st’antre du porte fatt’a archetto;
quella de mezzo era de passo stretto:
via, proprio ce voleva un ‘na slargata.

Sarà na gran capoccia ‘st’architetto,
se vede che la casa l’ha magnata:
che Roma ha gran bisogno de ‘ne entrata
si incasomai vò dà fora Ghetto.

 M'immagino che puro a l’antre porte
faranno la medesima funzione,
‘sta cosa l’ho penzata tante vorte:

Ce vò ‘no sfogo a Roma, gente mia
(ammettemo de nò pe’ le persone)
si nun antro a le gran cojonerie
”.

Come per le altre porte, la riscossione delle gabelle erano date, per nove anni, a vita od in perpetuo, a famiglie nobili, monasteri (per un carro di fieno 1 baiocco; per una soma di cacio 1 quattrino) e, dal 1466, gl’introiti spettarono al Comune ed in seguito alla Camera Apostolica. (La cinta daziaria di Marco Aurelio coincise con la porta [10]).

La Piazza anticamente non esisteva giacché la Flaminia attraversava “dritta quella zona, in mezzo a monumenti funebri, alcuni dei quali trascinarono la loro decadente vecchiezza fino all'epoca del rinnovamento di Roma”, che cominciò  con lo spoglio degli antichi monumenti.

Nel VI secolo, le pitture ed i disegni riportano ancora, al posto della chiesa di Santa Maria dei Miracoli, una gran tomba piramidale [11] e le era di riscontro, dov’è ora Santa Maria in Montesanto, un altro mausoleo. Era chiamato “Trullo” un rudere di torre, che stava dalla parte del Tevere e che, per un certo tempo, dette tale nome alla piazza, che si andava formando.

Questa fu mattonata tra il 1586 e 1588 sotto Sisto V (Felice Peretti - 1585-1590), meglio, nel 1605, da Paolo V (Camillo Borghese - 1605-1621), che provvide anche al tratto “Strada del Popolo-Ponte Molle”.
Selciata [12] nel 1624 da Urbano VIII (Maffeo Barberini - 1623-1644), si mostrava già ampia, ma “scoscesa e impraticabile per la maggior parte, fino al pontificato di Clemente VII (Giulio de´ Medici - 1523-1534), il quale demolì alcune fabbriche[13].
Gregorio XIII (Ugo Boncompagni - 1572-1585) l’aveva già abbellita della fontana, che  vi aveva fatta costruire da Giacomo della Porta nel 1574 (Fontana del Trullo).
Un’altra fontana “donata al popolo” pure da Gregorio XIII “per uso delle povere donne che non avevano dove lavare la biancheria”, nel 1581, era a sinistra della piazza come si vede in un quadro della Galleria Nazionale di Arte Antica.
L’antica fontana del “Trullo” che, fino al principio del XVI secolo, stava sulla piazza, dopo le demolizioni di Clemente VII e di Paolo III (Alessandro Farnese - 1534-1550) e dopo i progetti non attuati da Pio V (Antonio Michele Ghislieri - 1566-1572) e da Marcello II (Marcello Cervini - aprile 1555- maggio 1555), fu sostituita, ad opera del Della Porta,  con  un’altra,  la  cui  base  apparteneva  al  frontespizio del Tempio del Sole [14], i resti  del  quale  si  trovano  nella villa Colonna (Piazza Santi XII Apostoli).

Nel 1577-1578, per abbassare la fontana, Leonardo da Sarzana sostituì il piede della tazza con un altro lavorato da lui (fu compensato con 75 scudi) e così finalmente la fontana fu completata nel 1578.
Essa venne poi tolta da Leone XII (Annibale Clemente della Genga - 1823-1829), e trasportata a S. Pietro in Montorio [14bis]. Quando Sisto V (Felice Peretti - 1585-1590) innalzò l’obelisco sulla Piazza, esisteva, dunque, ancora la fontana Gregoriana.

L’obelisco di Ramesse II [15] (detto Sesostri, XIII-XII secolo a.Ch.) i cui geroglifici parlano di: “Sesostri datore di vita come il Sole, oro dei due orizzonti, innalzatore di edifici più stabili dei quattro sostegni del cielo”, fu portato a Roma da Ottaviano Augusto, dopo la sottomissione dell’Egitto, e dedicato al Sole nel Circo Massimo [16].

Sisto V, togliendolo dal Circo Massimo, lo aveva destinato a piazza Santa Croce in Gerusalemme, ma “essendo quel luogo fuor di mano e fatalmente lontano da ogni commercio[17] lo fece collocare invece, nel 1589, da Domenico Fontana, sulla piazza del Popolo: “ 22 marzo 1589 - Si è già data fine ad inalberare l'ultimo pezzo della guglia nella piazza del Popolo. Hora si attende a levare l’intessitura de’ travi et terreno, et intanto si dà principio alla nuova strada detta del monte Pincio”. Ma la morte del Pontefice avvenuta il 27 agosto 1590 impedì la realizzazione della via progettata, che da Santa Maria Maggiore, per la Trinità dei Monti, doveva raggiungere il Popolo attraverso la via Paolina (Babbuino).

La base dell’obelisco fu costruita con 33 blocchi tolti dal Settizonio, fatto demolire dal Pontefice; dice una cronaca: “Il Papa (volle) che si conducesse l'altra guglia, cavata dal cerchio massimo, nella piazza del popolo; si vedono ancora le anticaglie del Settizonio hormai spianato con dispiacere immenso”. E un’altra: “29 marzo 1589 - Fu inarborata la croce in cima all'obelisco. Risulta che l'opera fu di Matteo da Castello, che si ebbe in compenso scudi 300”.

La croce, che durante la Repubblica Romana del 1798 fu coperta dal berretto frigio, custodisce alcune reliquie postevi da Sisto V che con un breve, accordò “10 anni d’indulgenza et altrettante quarantene  a chi, passando per piazza del Popolo, salutasse devotamente la Croce fatta collocare sull’obelisco”.

Le quattro fontane coi leoni, che adesso l’attorniano, furono progettate dal Valadier.

Questi, consigliato dal cardinale Ercole Consalvi, espose il suo progetto-bozzetto (per l’assetto della piazza tutta) nell’atrio della chiesa di Santa Maria del Popolo, in occasione di una visita del pontefice Pio VII (Barnaba Niccolò Chiaromonti - 1800-1823), che aveva già manifestato l’intenzione di sistemare la località. Il pontefice, infatti, vedendo il bozzetto ne rimase tanto entusiasta, e disse al cardinale: “Siamo poveri è vero, ma quest'opera si deve compiere ad ogni costo[18].

I fienili, che già stavano sulla Piazza, erano stati abbattuti nel maggio del 1784, ma, per ampliarla ancora, fu allora (1812) abbattuta quella parte del convento dei frati “ordinis eremitarum”, che dopo le demolizioni di Paolo IV (Gian Pietro Carafa - 1555-1559) era stata ricostruita al di qua delle mura.

Verso la metà del 1813, i lavori furono sospesi e ripresi poi nel 1816, un anno dopo il ritorno di Pio VII.

Le due chiese Mariane, al principio della piazza, costruite dal cardinale Girolamo Gastaldi su progetto del Bernini, [19] hanno, per sostenere i portici, le colonne che adornavano il campanile di S. Pietro, fatto dal Bernini stesso e demolito da Innocenzo X (Giovan Battista Pamphili - 1644-1655).

Quella di Santa Maria dei Carmelitani di Monte Santo (detta Chiesa degli Artisti [19bis]), cominciata da Alessandro VII (Fabio Chigi - 1655-1667) rimase incompiuta per la sua morte [20] e fu appunto il detto cardinal Gastaldi a completarla a sue spese.
Infatti il diarista Cervinia scrive: “3 settembre 1678 - Festa per l'apertura della chiesa di Monte Santo alla piazza del Popolo, fatta fabbricare a spese del cardinale Gastaldi, genovese”.

L’altra di Santa Maria “miraculorum che invano i religiosi officianti cercavano d’ingrandire e che era stata fatta costruire dall’Arciconfraternita di S. Giacomo, nel 1525, per venerarvi un’immagine della vergine che si trovava anticamente in un arco interno delle mura Aureliane, presso la porta, fu pure ricostruita dallo stesso Cardinale.
In data 1681, ai 4 d'agosto, fu aperta la “nuova chiesa della Madonna dei Miracoli alla piazza del Popolo con l'intervento del Cardinale Carpegna, vicario, che disse la Santa Messa, con concorso di popolo eccessivo”.
Si dice che il Cardinale si decise ad accollarsi la spesa di questa costruzione, indotto da una scritta trovata una mattina sul posto dei lavori, dovuti sospendere dai religiosi per mancanza di fondi. La scritta diceva: “il cardinale Gastaldi non sarà mai santo se non farà MIRACOLI”, e fu lì che il prelato volle essere sepolto.

Santa Maria del Popolo - Allorché Paolo IV (Gian Pietro Carafa - 1555-1559) consolidò le mura, fece abbattere due casette che erano vicino alla porta ed aveva disposto anche per l’abbattimento [21] della chiesa di Santa Maria del Popolo, che fu risparmiata solo  per le petizioni presentate al Papa e al cardinale Antonio Caraffa.

Questa chiesa ha un’origine leggendaria [22]. Una cappella espiatoria, vicino al “gentile Domitiorum monumentum[23], costruita da Pasquale II (Raniero Ranieri - 1099-1118) nel 1099, sta alla base della leggenda....

Un arboro di noce tanto sublime e alto si trovava e superava di gran lunga tutti gli altri arbori che in quel sito e contorno si trovavano, sotto il quale se ne giaceva sepolto il corpo del crudele e inumano Nerone [24], sopra poi e d’ogni intorno habitava (cosa spaventevole d’udire) una grandissima quantità et moltitudine di spiriti rubelli, diabolici et infernali per custodire il già detto corpo anco molto più per infestare et offendere li fedeli cristiani...

Pasquale II (1099-1118) fece indire pubbliche preghiere e impose al popolo un digiuno di tre giorni, rivolgendosi al cielo perché gl’ispirasse rimedio. Una visione della vergine che gli suggerì “di abbattere l'arboro del male e consacrare la pendice dedicando un altare a Lei[25].

Nel 1227, sotto Gregorio IX (Ugolino dei Conti di Segni - 1227-1241), la cappella votiva fu, dal popolo romano, trasformata in una grande chiesa, veneratissima dai romani, che accrebbero ancora di più la loro devozione, quando “nel 1281 una terribile pestilenza affliggeva Roma e papa Gregorio IX ricorse ancora all'invocazione del soccorso divino, intimando al popolo una processione di espiazione nella quale egli stesso scalzo e seguito da un imponente corteggio di cardinali e vescovi, portò un quadro di Maria della cappella di “Sancta Sanctorum” al tempio di Santa Maria del Popolo”.

Questo quadro, ritenuto dipinto da S. Luca, era stato donato ai pontefici romani dalla pia imperatrice Pulcheria (399-453), togliendolo alla chiesa di Antiochia di Oriente e che godeva fama miracolosa. Questa fama ebbe la sua conferma clamorosa con la scomparsa della pestilenza, ed il quadro, per decreto del popolo riconoscente, rimase fin da quel giorno in Santa Maria del Popolo.

Ma l’attributo “del Popolo” sembra non le sia stato dato per questo, né per quei pretesi “populi” (pioppi) piantati nelle vicinanze.

Sembra invece che abbia avuto origine dal nome che si dava nel medioevo alle grandi parrocchie campestri, e cioè plebes, pievi e populi, così come anche adesso, nei dintorni di Firenze, è adoperato “popolo” per pieve e parrocchia. Infine “quel nome ricorda la prima borgata sorta nella via Flaminia dopo l'abbandono della città e la rovina dei monumenti romani nel campo Marzio”.

La chiesa, rovinata per le turbolenze cittadine, fu riedificata da Sisto IV (Francesco Della Rovere - 1471-1484) coi disegni del Pintelli.
Giulio II (Giuliano Della Rovere - 1503-1513) l’arricchì ancora di pitture e sculture [26] e, da ultimo, Alessandro VII (Fabio Chigi - 1655-1667) la abbellì di più con disegni del Bernini.

Molto soffrì la chiesa nel sacco di Roma del 1527 ed il convento distrutto fu riedificato solo nel 1572, quando l’ottenne la Congregazione di Lombardia degli Agostiniani.

Fin dal ‘400 i Pontefici, di ritorno dai loro viaggi, usarono pernottare nel convento prima di fare l’ingresso solenne nell’Urbe.

Da Santa Maria del Popolo partiva la Chinea (cavallo bianco) per la Basilica Vaticana.
La Chinea era l’Atto di vassallaggio del Re di Napoli al Pontefice e che durò fino al 1787. Consisteva in un cavallo bianco, bardato riccamente, che portava sulla sella un vaso d’argento con dentro 7000 ducati d’oro, e dal Conestabile Colonna venivano umiliati (dati con reverenza) al Pontefice regnante a nome del Sovrano Napoletano.

Quando a Clemente XI (Giovanni Francesco Albani - 1700-1721) furono offerte due Chinee, in nome di Filippo V e Carlo II, ambedue pretendenti al trono di Spagna, il Papa le rinviò. Fece poi coniare una medaglia simbolica, con un cavallo fuggente e la scritta: “Equo non credite Teucri” (Non vi fidate del cavallo, o Troiani!).

Sulla porta della chiesa dietro una ferrata, sta uno scheletro di marmo giallo, avvolto in un sudario di marmo bianco.

Benché faccia parte del monumento funebre dell’architetto romano Giovanni Battista Gisleni (1600-1672), pure ha una sua leggenda.
Così la racconta il popolo che chiamava “la camusa” la “Morte in prigione”.
Una notte di tempesta, i fratelli dell’Arciconfraternita di Santa Maria dell’Orazione e Morte rientravano in città, da porta del Popolo, stanchissimi inzuppati dalla pioggia che continuava a cadere.

Il cadavere, che avevano raccolto in un campo, a parecchi chilometri da Roma, era altrettanto pesante e poiché avevano il privilegio secolare di deporre le salme nella prima Chiesa che trovassero entrando in città, stabilirono di deporre il defunto in quella di Santa Maria del Popolo.

Bussarono alla porta del tempio a lungo e inutilmente, ma i frati o per l’ora tardissima o perché troppo spesso erano gratificati di tali regali, fecero i sordi.
I fratelloni, che pensavano alla strada che avrebbero dovuto, con quel peso, far ancora fino a via Giulia, si decisero ad infrangere un’inferriata di una finestra bassa che s’apriva sulla facciata della chiesa e per quel piccolo varco vi introdussero il cadavere.

La mattina, appena giorno, avvedutisi i frati dell’avvenuta violazione, protestarono vivamente presso il vicariato e lo stesso Pontefice, inoltrando il loro reclamo.
Si dice che il Pontefice vagliato il tutto, sentenziasse che, come sola colpevole, “la morte dovesse mettersi in prigione”.

Altra curiosità, scomparsa solo da qualche anno, era “una grossa e lunga costa di balena o sia stato altro animale” che figurava, sospesa a due catene nell’uscita laterale del tempio.

La storia di questo pezzo... anatomico, narrata (XVIII secolo) dal diarista Gigli, sarebbe la seguente:

Nell'anno 589, verso la fine di ottobre, crebbe il Tevere tanto, che le sue acque corsero sopra le mura di Roma inondando largamente i luoghi più bassi, e non solo rovinò infinite case, ma ancora i grani della chiesa e guastò infinita quantità di grano. E quello che fu di nuovo stupore a tutti, una moltitudine grande di serpenti con una balena o dragone di smisurata e stupenda grandezza in modo di un grosso trave, passarono per lo Tevere e scorsero con grandissimo spavento del popolo per tutta Roma, e arrivati al mare, morirono soffogati e dalle onde gettati al lido, fecero un misero spettacolo ai riguardanti. Della qual balena si è visto ai giorni nostri una costa attaccata per meraviglia in Santa Maria del Popolo e un'altra in Ara Coeli più di 10 piedi lunghe e grosse smisuratamente”.

Questa seconda, in Ara Coeli, stava nella Chiesa capitolina, dirimpetto alla cappella di San Diego, e scomparve al principio del XVIII secolo.

Spettacoli - Sulla piazza si dettero spettacoli di genere vario: così la fiera che vi si teneva dal giorno di mezzaquaresima [27] fino all’ottava di Pasqua; l’estrazione di tombole; la mossa dei barberi, che allo squillo di tromba del capo barbaresco si allineavano per la partenza:

Al segno della tromba, e non prima, essi (i barbareschi) porteranno al campo i corridori e ve li tratterranno con la maggiore quiete possibile, sino al segno della mossa, astenendosi dall'usare nervi, fruste e bacchette per non spaventarli, sotto la pena della carcerazione.....

Per vedere tali partenze “si costruivano sulla piazza tribune di legno ad uso d'arte e con tutta la sicurezza tanto degli spettatori che li prendevano in fitto, quanto di tutto il resto del popolo circostante” ed “una visita del tribunale delle strade nella mattina delle corse doveva constatarne la solidità”. In una di esse, anche Vittorio Emanuele II assistette all’inizio della corsa, che fu abolita nel 1882.

Altro spettacolo, molto più recente, era la Girandola, che fino al 1850 era stata incendiata a Castel Sant'Angelo [28], che, trasportata sul Pincio, faceva correre sulla piazza tutta Roma, ad ammirare l’illuminazione di veri e propri prospetti architettonici riproducenti antichi monumenti romani o scenografie.

Al centro delle tribune, alzate anche in quest’occasione, vi era la tribuna reale, da dove  non mancavano di godersi lo spettacolo il  Re Umberto e la Regina Margherita.

La piazza fu anche trasformata in stadio nel 1891, quando vi corsero i butteri della campagna romana.

Ma anche la giustizia vi ebbe il suo corso. La più antica esecuzione di cui si abbia certezza fu quella del 16 maggio 1459 in persona di “un giovane scellerato”, che insieme ad altri aveva sequestrato “uno camerero dello Senatore” e condottolo “allo trullo di Santa Maria del Popolo e tenutolo là la sera”.
Spettacoli ai quali accorreva un pubblico non certo inferiore, per numero, a quelli ricreativi. Le esecuzioni vi si protrassero nei secoli e l’ultima giustizia registrata sotto la data del 28 gennaio 1826, la subì tal Giuseppe Franconi “reo di omicidio e ladroneggio in persona di un prelato[29].

Ma un altro genere di spettacolo vi si produsse: la pena della frustata.

L’ultima fu impartita, nel 1855, sopra un alto palco costruito accanto all’obelisco, ad un tale che, sulla stessa piazza, durante l’estrazione della tombola, per un borseggio da lui eseguito, aveva destato un gran tumulto causa di qualche morto e di parecchi feriti.

Il pubblico che vi assisteva applaudì il boia che aveva somministrato al reo le 25 o 26 nerbate.

Da sotto le belle arcate che sembravano sorreggere la grande terrazza del Pincio che contribuisce all’abbellimento della Piazza, è stata tolta una statua di Vittorio Emanuele II che stava al centro del porticato (trovasi nella caserma del Macao).

Questa statua, già acquistata dal principe Doria pro-sindaco, che si vide rifiutato dal Consiglio Comunale l’acquisto, fu in seguito ceduta al Comune stesso in cambio di un tributo di miglioria dovuto dal detto principe.

Il comune la collocò nel portico suddetto, e solo nel 1930 fu tolta per realizzare il progetto, che il Valadier aveva immaginato a suo tempo. Una mostra dell’Acqua Vergine, che con una larga caduta avesse dato movimento e leggiadria a detto porticato.

Solo l’impossibilità di avere la quantità d'acqua necessaria ad attuare la cascata, lo distolse dall’impresa.

Oggi una massa d’acqua sollevata con pompe, che azionano un perpetuo ritorno dal basso in alto, forma una caduta larga 2 m, e fornisce nel centro uno zampillo alto 3 m e nelle nicchie sottostanti altri alti zampilli. La massa d’acqua comprende una rotazione di circa 10.000 m³.

La statua equestre di Vittorio Emanuele II è, per adesso, nella caserma di Castro Pretorio.

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[1]              Per un periodo fu anche detta Flumentana, mentre la Flumentana romana era collocata nei pressi del Foro Olitorio.

[2]              Abbazia privilegiata.

[3]             Un’iscrizione, forse del IV secolo, è incisa sopra una pietra della porta, dove un padre cristiano diffidava dal compiere sacrifici idolatri sul sepolcro della figlia vissuta apparentemente “inter alienos pagana”, ma in realtà “inter fideles fidelis”.

[4]              Altre colonne furono destinate ad altri edifici. Dicono gli avvisi volume 29 dell’archivio segreto Vaticano: “Roma 25 agosto 1660 - sono state prese otto colonne bellissime di valore di 12.000 scudi dicono della chiesa di San Giovanni Laterano e mandati a Siena che sono state imbarcate a Fiumicino.”

[5]             A destra, una lapide con iscrizione, al ricordo del restauro generale delle mura dalla porta Ostiense fino alla porta Flaminia, iniziato nell'anno 1749, ultimato nel 1752, Pontefice Benedetto XIV.

[6]              Al momento del suo ingresso l’iscrizione non era, quindi, ancora sul marmo.

[7]              Il dott. Kaas, (sotto Pio XI - 1922-1939) ha ritrovato la regina Cristina, nella tomba, col volto coperto da una sottile maschera d’argento, meravigliosamente conservata.

[8]             Cardinale Decio Azzolini - Esecutore testamentario e legatario della regina Cristina di Svezia, fra l’altro, gli furono dati "240 dipinti, medaglie e monete ed inoltre molte migliaia di disegni e la biblioteca". I 240 dipinti il Cardinale li trasmise a sua volta al proprio nipote Pompeo che cedette la collezione al principe Livio Odescalchi per 135.000 scudi. La biblioteca invece l’acquistò il cardinale Ottoboni (poi Alessandro VIII) che poi ne fece dono alla "Vaticana", mentre le medaglie e le monete vennero acquistate, assai più tardi, nel 1794, da Pio VI per 20.000 scudi; ma Papa Braschi fu in seguito costretto a cederle a Napoleone nel trattato di Tolentino e finirono nel "Gabinet des medailles” nella Biblioteca Nazionale di Parigi. I disegni, ceduti dagli Odescalchi, e insieme ai 240 quadri al duca d’Orleans (detto il Reggente) Filippo (1674-1720) per 93.000 scudi, furono questi disegni regalati a Crozat, suo intendente d’arte, dal cui gabinetto li acquistò nel 1742 il Louvre, mentre i dipinti collocati nel palazzo Richelieu, passarono con quest’edificio alla Corona.
Il Palazzo, che si intitolò nel 1636: "Palais Royal” e che  Luigi XIV donò al nipote Filippo d’Orleans, il quale vi raccolse la più splendida collezione privata che mai si sia vista in Francia. La sua dispersione avvenne in Inghilterra nel 1790 e tra l’altro v’erano capolavori come la "Danae" del Correggio (oggi alla Galleria Borghese) e "Giove ed Io" dello stesso autore oggi alla galleria di Berlino).

[9]             Chiamato dal popolo « re petito », entrò il 31 dicembre e prese alloggio al palazzo Venezia.

[10]           Cinta daziaria di Vespasiano e Tito (luoghi) - La linea di questa cinta (da non confondersi col pomerio giacché, delimitando l’abitato a scopo fiscale, comprendeva tutta l’Urbs: usque ad extrema tectarum), ci è ignota nel suo svolgimento, ma si ha motivo di credere che essa fosse poi ricalcata da quello dei due imperatori Marco Aurelio (161-180) e Commodo (180-192).
Questa cinta, secondo Plinio, aveva un perimetro di 13.200 passi (metri 19.536) e la somma approssimativa dei raggi fra il "miliarium aureum in capite Romani Fori statuto” e le singole porte, era "per directum" di 20.765 passi (metri 31.130). Lo sviluppo poi di tutte le strade e dei villici entro la detta cinta, assommava a quasi 90 km; ciò che spiega il commento di Plinio che dice: "nullius urbis magnitudinem in toto orbe potuisse ei comparari" quando si pensa anche all’altezza singolare degli edifici contenuti nel recinto del quale cinque cippi Aureliani e Commodiani sono giunti fino a noi e parlano di una misurazione fatta da questi imperatori "secundum veterem legem". Dall’ubicazione dei cinque cippi si può rilevare che, ad eccezione delle regioni I, VII e XII, cioè rispettivamente Porta Capena, via Lata e Circo Massimo, la cinta daziaria corrispondeva quasi esattamente alla cerchia di Aureliano (270-275).

[11]            Fu creduta di Silla per una lapide, rinvenuta nelle vicinanze, che diceva: “Qui giace il felice Silla - che non scordò mai un beneficio - non perdonò mai un'offesa”. La parrocchia del Popolo si estendeva fuori della porta, oltre ponte Molle e l’Acqua Acetosa e toccava la via Salaria e l’Aniene.

[12]            La  selciatura  delle  vie fu iniziata nel 1587 da Sisto V (1585-1590). Sisto IV (1471-1484), che fu il primo pontefice che fece lastricare le strade, adoperò mattoni laterizi messi in opera a spina. Si credeva che i selci mantenessero l’umidità, danneggiando così la salute pubblica. Pio IV in una bolla del 22 settembre 1565, dopo aver constatato che la città era "soggetta all'umidità e in quelle parti dove lastricata con selci è ancor più umida", vietava espressamente "a tutti e ciascuno muratore, sotto pena di esilio e altre pene pecuniarie e anche corporali, da infliggersi ad arbitrio dei Maestri delle Strade, e ai padroni una penalità di 200 ducati, se ardiscano o presumano di lastricare la via con selci, avanti le proprie case. Ordiniamo inoltre che ogni strada della medesima città sia pavimentata con mattoni di laterizio, mentre le cosiddette guide devono essere di peperino, travertino o pietra, ad arbitrio dei Maestri delle Strade, né frammischiate in una stessa via, ma tutto o di peperino, travertino o pietra".
Nel 1587 erano già, in questo primo anno, lastricate e selciate 121 strade, ma poco a poco al mattonato, che costava allora 3 scudi (300 bajocchi) la canna quadrata, si sostituì il selciato che importava una spesa di 22 giuli (220 bajocchi), per la stessa superficie.
Roma ne riportò così, oltre che un vantaggio estetico, anche un non trascurabile profitto igienico, perché strade e vicoli, per mancanza di pendenza, si trasformavano in paludi per le “acque pluviali, che, per mancanza di scolo, rimanevano stagnanti e appestavano l'aria" tanto che "l'erba cresceva rigogliosa in molte località centralissime, sino a diventar pascolo di armenti".

[13]            Nel Medio Evo, fra i Pincio ed il Tevere, in quella parte confinante con Santa  Maria del Popolo, in casette addossate in parte al muro Aureliano, abitava povera gente, ma nella zona, erano frequenti persone di dubbia onestà ed elementi loschi, prostitute e malviventi che vivevano sfruttando il passaggio dei forestieri che entravano da porta Flaminia.

[14]            Di un’altra simile base era fornita la fontana di piazza Giudea.

[14bis]        Oggi si trova in Piazza Nicosia (dal 1950).

[15]            Contemporaneo di Mosè.

[16]            Sulla base dell’Obelisco si legge: “Imperator Caesar Divi F. - Augustus-Pontifex Maximus - imp.XII cos. XI trib. Pot. WIV - Aegipto in potestatem - Populi Romani redacta-Soli donum dedit”.

[17]            "... designava (pensava) la Santità di nostro Signore (Sisto V) di farlo (l’obelisco) condurre alla chiesa di Santa Croce in Gerusalemme: ma havendo ordinato Sua Santità, circa quel tempo, per comodità universale del popolo romano e di tutti i forestieri e Pellegrini che la detta chiesa di Santa Maria del Popolo fosse privilegiata, come una delle sette chiese di Roma, sovvenne allora a sua Beatitudine che sarebbe stato più conveniente il nobilitare questa chiesa...”  E l’obelisco fu alzato e consacrato il 25 marzo 1589.

[18]            La lapide che lo commemora, sulla Piazza, dice: “Pius VII Pont. Max. Fori aream - Per hemiciclos porrexit - Et gemina fonte exornavit ut aedificiis binis utrimque - Una pariter exctructis - Principem Urbis aditum - Novo cultu nobilitaret -  Pont. Anno XXIV”.

[19]            Chiese di Santa Maria in Monte Santo e di Santa Maria dei Miracoli, in piazza del Popolo - Le vicende costruttive della chiesa di Santa Maria in Monte Santo sono lunghe e complesse. In sintesi, posta la prima pietra nel 1662, i lavori interrotti furono ripresi nel 1673, con l’intervento in alcune parti del Bernini, e condotti a termine nel 1675, nel quale anno giubilare fu iniziata la costruzione della chiesa attigua di Santa Maria dei Miracoli, terminata da C. Rainaldi e Fontana nel 1679 circa; ambedue vennero costruite con un contributo di 36.000 scudi da parte del cardinale Girolamo Gastaldi.
Nel presbiterio della seconda chiesa sono, una di fronte all’altra, le tombe di Benedetto Gastaldi, fratello del cardinale (+1681) e del cardinale Girolamo (+1685), con busti di bronzo dorato di Girolamo Lucenti. Nel presbiterio della prima chiesa furono invece posti, appaiati nelle grandi nicchie laterali, quattro alti piedistalli con iscrizioni, quattro busti in bronzo di Alessandro VII, Clemente IX, Clemente X e Innocenzi XI, quale omaggio del cardinale Gastaldi ai suoi protettori. La loro sistemazione "in situ" avvenne presumibilmente nel 1679-1680, essendo menzionata nell’iscrizione  dedicatoria a Innocenzo XI (1676-1689) soltanto la carica di legato pontificio a Bologna, ricevuta nel 78 dal cardinale Gastaldi, nominato poi arcivescovo di Benevento nell’80.

[19bis]         La chiesa di Santa Maria in Montesanto è anche nota come “Chiesa degli Artisti”, perché, dal 1953 viene qui celebrata una Messa, detta e celebrata per gli Artisti di confessione cattolica, ogni domenica alle 12h15. Questa tradizione prende le mosse dalla conversione al cattolicesimo della pittrice Wanda Cohen, nel 1941, e dall’amicizia e frequentazione di mons. Ennio Francia (1904-1995) con il marito di lei, Alfredo Biagini (1886-1952). I coniugi Biagini che erano soliti ricevere, nella loro casa di piazza di Spagna, un circolo di amici artisti nel pomeriggio della domenica, accolsero l’idea di mons. Ennio Francia di celebrare una prima messa, il 23 marzo 1941, nella chiesa di Santa Maria in via Lata.
Negli anni seguenti la “Messa degli Artisti cattolici” passò, negli anni, all'Oratorio del Santissimo Sacramento in piazza Poli, all'Oratorio del Caravita a San Giacomo in Augusta fino alla chiesa di Santa Maria in Montesanto, in piazza del Popolo, dove mons. Ennio Francia le ha trovato una sede definitiva, dal 1953.

[20]            In quell’occasione Marforio: “che ha detto il pontefice nelle sue ore estreme?” Pasquino: “Maxima de se ipso - Plurima de Parentibus Parva de principibus, Turpia de Cardinalibus, Pauca de Ecclesia, de Deo nihil. Maximus in minimis - Minimus in maximis”.

[21]            Agosto 1556 – Proponendosi “di fortificar tutta la città e bastionarla dappertutto dove bisogna, e per ciò fare si rendeva il pomerio alle mura di fuori per lo spazio di 100 canne et dentro 50”; per ciò andavano “guaste e rinnovate tutte le vigne et case e le chiese che sono nello spazio, et tra l’altre, va giù la chiesa della Madonna del Popolo, et hieri si cominciò a gittare, ma perché i muratori si sono offerti di buttarla giù in due giorni, quando ne venga il bisogno, s'è lasciato di ruinare più oltre in quel luogo”.

[22]            In capo all’odierno Corso, all’altezza delle due chiese Mariane, erano due mausolei, a forma di piramide: uno a sinistra (forse quello di Silla), che nel medioevo fu detto “meta” e a destra l’altro che poggiava sopra un ampio basamento quadrato. In fondo alla Piazza del Popolo, a destra il mausoleo imperiale dei Domizi, che conservava le ceneri di Nerone.

[23]            Gli “Horti Domitiorum” dovevano confinare con la via Flaminia e fu lì: “gentili Domitiorum monumento...quod prospicitur e Campo Martio, impositum colli hortulorum” che Nerone fu tumulato dalle sue nutrici Egloge e Alessandrina e dalla concubina Acte con una spesa di 200.000 sesterzi (circa 45 milioni di lire oro), e ciò per il lusso delle vesti e degli oggetti che furono deposti nella tomba.
Altri “Horti” vi sono stati riconosciuti: “Horti Messallae Corvini” (1° secolo dell’Impero) da un cippo terminale; “locus in quo maceria est et maceria privata M. Messallai Corvini”.
“Horti Pompeiani” dove Pompeo doveva possedere la vera villa privata, forse alla destra della via “Salaria vetus”, di fronte ai giardini di Lucullo. Dopo la morte di Pompeo, i suoi giardini passarono nelle mani di Antonio, quindi di Dolabella e infine diventarono imperiali.

[24]            “Quod prospicitur a Campo Martio impositum Colli Hortorum” (Svetonio 69-150). E si dice che la Chiesa, ingrandita, coprisse la tomba ed anzi il sepolcro di Nerone fosse “ubi olim altare majus Sanctae Mariae de Populo”, e cioè “al medesimo sito della cappella di Pasquale II”.

[25]            La piccola chiesa fu officiata da sacerdoti che avevano anche il compito di assistere i viaggiatori indigenti in arrivo dalla porta Flaminia. Questi monaci verso il 1200 erano in numero di 12.

[26]            La cappella dei Chigi fu architettata da Raffaello che disegnò il quadro dell’altare, colorito poi da fra’ Sebastiano del Piombo. In questa cappella v’era una tomba di un improvvisatore (attore), della fine del XV secolo, Serafino dell’Aquila: v’era scritto: “Qui giace Seraphin; partite or poi. Sol d’aver visto il sasso che lo serra, - assai sei debitore agli occhi toi”.  Altra tomba scomparsa é quella che Vannozza Borgia de’ Catanei si era fatta erigere nella cappella dedicata al Corpus Domini e che fu da lei dotata nel 1503 di due casette, con l’obbligo di suffragi e di accendere due torce sulla sepoltura, ogni anno, nel giorno anniversario della sua morte. Vi erano sepolti con lei il secondo marito Carlo Canale e il figlio duca di Candia assassinato il 14 giugno 1497. Scomparsa la tomba, la lapide è adesso murata nell'atrio della basilica di San Marco a Piazza Venezia.

[27]            Usanze quaresimali dell’800 – Fino ai primi anni del XIX sec. si usava alzare, a Campo Vaccino (Foro Romano), un fantoccio formato di fichi secchi, noci, noccioline ed altre frutta secche raccolte da “grevi” volenterosi tra i fruttivendoli di Roma. Il fantoccio, piantato al centro di un robusto assito di legno simulante la forma di un castello medioevale, veniva preso d’assalto dal popolino, del quale i più “bulli” si munivano di scale adatte a raggiungere la meta, mentre i “pacifici” si affannavano a smorzarne gli ardori al grido di “acqua, acqua” e cospargendoli con generose secchiate.
È questa l’origine delle scalette di cartone o carta colorata che durante la mezza-quaresima vennero poi, per istrada, attaccate alle spalle dei passanti ignari, dai soliti ragazzini che rendevano lo scherzo anche meno piacevole con lo spruzzare addosso ai malcapitati l’acqua di un secchiello.
Il Belli nel suo sonetto “quaresima” scrive:

“Ciò avuto la scaletta e me so’ presa,
per l’amor de Gesù, sino ar barbozzo
una pianara o due d’acqua de pozzo,
e l’acqua, Dio lo sà, quanto me pesa!

Avanzando gli anni, irrobustivano anche gli scappellotti ed, abolita l’acqua, i “regazzini” fecero tappa sulle sole scalette, ma il ‘900 portò argomenti così persuasivi che le scalette rimasero solo nel ricordo degli ultimi romani.

[28]            Fin dall’origine, che sembra risalire al secolo XV, le cosiddette “scappate” per la festa di S. Pietro o per altre circostanze, si svolgevano al Castello. Dopo un tentativo al Pincio di Gregorio XVI (1841), le girandole furono continuate sul mausoleo di Adriano fino al 1850, quando i francesi vi sistemarono una polveriera. Fu allora il Pincio il posto prescelto, ma dal 1871 al 1887 la girandola tornò al Castello per poi proseguire al Pincio, dove cessò nel 1913. Un tentativo di ripristino nel 1929 e 48 al Pincio e nel 1930 sul Gianicolo e poi più niente. Solo che queste ultime volte non fu avanzata la solita macchina pirotecnica che rappresentava in genere un monumento nelle sue linee architettoniche. Così ai primi dell’800 la Mole Adriana fu trasformata in una pagoda cinese e nel 1871 l’architetto Pio Piacentini, vi figurò i più caratteristici monumenti italiani facenti corona al Campidoglio. Per il lancio dei razzi il “codone” che dicevasi inventato da Michelangelo, sparava i primi 4000; ed il “cassone” del Bernini lasciava l’ultima scappata.

[29]            L'epigrafe commemorativa di Montanari e Targhini eseguiti nel 1867, è addossata all’attuale caserma dei carabinieri, già fabbricato dell’antica dogana, cui fu aggiunto di fianco, dal Valadier, un edificio in funzione soltanto decorativa, come quello dell’altro lato, vicino alla chiesa.

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Lapidi, Edicole e Chiese :

- Piazza del Popolo
- Chiesa di Santa Maria del Popolo
- Chiesa di Santa Maria del Popolo - Lapidi
- Chiesa di Santa Maria dei Miracoli

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