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STRADE DELLA ROMA PAPALE

Via del Velabro (R.XII Ripa) (da via San Teodoro a Piazza della Bocca della Verità)

Questo "locus depressus", fra il Campidoglio ed il Palatino, il cui suo nome si pensava derivasse da "velaturum facere" (fare il barcaiolo) e da "vehere amne" (condurre per fiume) [1], sembra fosse un vero lago e, quando il Tevere si ingrossava per le piene, le sue acque penetravano fin nella valle del Forum.

Mitica, la tradizione che fa sbarcare il figlio di Mercurio e della Ninfa Carmenta, Evandro, nella zona del Velabro, circa 60 anni prima della distruzione di Troia. (Circa 1187 a.C.).
Ed a lui, che conduceva una colonia da Pallanzio (Arcadia), si attribuisce la fondazione di “Pallaentum” sul Palatino.

La tradizione, che una leggenda medievale rianima, del ritrovamento favoloso del corpo dell’eroe Pallante, figlio di Evandro, ucciso da Turno re dei Ruttuli: "Tunc corpus Pallantis filii Evandri, de quo Virgilius narrat, Romae repertum est illibatum, ingenti stupore omnium...", racconta che nella tomba ardeva tuttora una torcia, né si era potuto spegnerla diversamente, che praticando un’apertura sotto la fiamma.

Il Lupercale - Anche Romolo e Remo [2] ebbero dal Velabro l’inizio della loro leggenda [3].
In questa specie di porticciolo naturale, formato dalla palude che si addossava alle falde del Palatino, si fermò la loro cesta [4].  Da questa parte era, sul Palatino stesso, il "Lupercale", cioè l’antro del Fauno Luperco, che secondo la leggenda vi abitò prima della fondazione della città. 

L’antro, che fu venerato fino al tardo impero [5], era contornato da un folto bosco e nell’interno vi scaturiva una sorgente d’acqua.
Di fronte all’antro sorgeva il "ficus ruminalis", sotto il quale si sarebbe fermata la cesta dei gemelli, prima che, per un prodigio dell’augure Atto Navio, il fico si trasferisse “magicamente” nel Comizio.
Un ingresso speciale metteva in comunicazione il circo Massimo con il Lupercale e dentro il santuario era venerato un gruppo di una lupa che allatta i gemelli, come è effigiato nelle monete più antiche di Roma.

La palude del Velabro, per quanto diminuita con la costruzione della Cloaca Massima (615 a.C.-138 a.U.c.), attribuita a Tarquinio Prisco [6] (616-578 a.C. – 138 a.U.c.), non poté essere ancora utilizzata per costruzioni di una certa importanza, finché, dopo l’incendio neroniano (64), il livello del terreno fu notevolmente rialzato [7].

La Cloaca Massima [8] si forma nella Suburra (chiesa dei SS. Quirico e Giulitta [9], passa sotto l’Argileto [10] e la basilica Emilia. Avanti questa basilica, nel punto in cui la Cloaca attraversa l’area consacrata del Foro, i Romani innalzarono un piccolo tempio rotondo, quasi un "temenos" scoperto (se ne vedono ancora le tracce), alla divinità che doveva purificare e proteggere lo scolo delle acque di scarico dei quartieri montani della città verso il Tevere; divinità che fu più tardi identificata con Venere Cloacina [11].

Dopo aver attraversato in linea obliqua il Foro, la Cloaca rasenta la basilica Giulia e, seguendo il tracciato del “vicus Tuscus”, va verso il Velabro [12], ove serpeggiando piega alquanto verso il Campidoglio e poi passando sotto l’arco di Giano va a gettarsi nel Tevere, sotto l’attuale ponte Palatino [13].

È stato rilevato che la struttura della Cloaca è composta di tre ordini di archi, saldati l’uno sopra l’altro. Il vano interno misura 18 palmi di altezza e larghezza. Ciascun pezzo di peperino “ha la lunghezza di palmi 7 e once 3, 4 palmi di grossezza e once 2”. Tutta la lunghezza della Cloaca è di 300 “passi andanti". Tutti i massi che formano la volta, sono posti ad incastro.

Vi sboccano da una parte un ruscello che nasce presso la chiesa di San Giorgio e dall’altra l’acqua proveniente dall’orto di San Gregorio, sotto villa Mattei (Celio). Dice un diario: “nei mesi scorsi l'abate Carlo Fea (1753-1834) scoprì che due sono le grandi sorgenti dell'acqua di S. Giorgio in Velabro condottate in tempo antico. La bassa, proviene dal vicino angolo del Palatino verso la chiesa di San Teodoro[14];la superiore, dal monte Celio, sotto Santo Stefano Rotondo [15] e villa Mattei [16],in due diverse vene riunite nello scorrere. Questa è più leggera e delicata e assai copiosa. L'altra, è quasi di uguale bontà e più leggera di quella di Trevi, e assai più copiosa e, per il suo livello,  può condursi a una certa distanza. Quest'acqua, celebre nei libri degli antiquari e degli architetti, è detta Acqua Argentina"[17].

Una notizia del 1846 aggiunge che l’acqua di S. Giorgio è "creduta medicinale, per cui il volgo ne fa uso nell'estate a guarigione di molti mali. Fatto però il saggio analitico negli scorsi anni dai professori Carpi e Morichini, si trovarono le sue qualità simili del tutto all'acqua di Trevi, ed appena nata, entra nella cloaca medesima"[18].

Nel Velabro, i Romani celebravano le ferie di Acca Lorenzia [19], cui Numa avrebbe eretto una tomba al Velabro ("parentari ei publicae”) vicino alla porta Romanula [20], poco lontano dal posto ove contemporaneamente anche i sacerdoti sacrificavano ai Mani servili [20bis].

Vi si celebravano pure le “Vertumnalia” [21] in onore di Vortunno (Giano) [22] dio proteiforme “Vertumnus deus invertundarum rerum est, idem mercaturae”, che aveva perfino mutato il corso del Tevere [23], liberando il Velabro.

L’arco dell’argentario - “Argentarii et negotiantes boari huius loci qui invehent” edificarono in onore di Settimio Severo, nel 204 d.C., l’arco che è addossato a S. Giorgio.
L’arco fu dedicato: all’imperatore, a sua moglie Giulia Domna, ai loro figli Caracalla e Geta e a Fulvia Plautilla, moglie di Caracalla e figlia di Plauziano, prefetto del pretorio (Roma era detta allora: "Urbis sacra dominorum nostrorum”).

Racconta una cronaca, che Caracalla (211-217), passando un giorno sotto l’arco degli Argentari e scorgendo sul monumento il ritratto scolpito di Geta, da lui fatto assassinare (212) con 2000 partigiani, per poter regnare solo, "forse, preso dal rimorso vedendolo, diede in un dirotto pianto. Gli Argentari, impauriti, temendo per essi, fecero abradere l'altorilievo e il nome di Geta dall'iscrizione dedicatoria"[24]. Le tracce dell’altorilievo abrasato sono tuttora visibili.

Nel medioevo quest’arco ebbe nomi stranissimi dovuti in parte alla scena del sacrificio che vi si vede scolpita, e così fu detto: “l'arco di la vacca e del toro”; “larcho di decio”; “l’archo de le sette vacche” ecc.
Compreso nel codice seicentesco della Biblioteca Angelica Miscellanea, in quell’elenco che lo numera fra i 16 tesori che esisterebbero nascosti in diversi monumenti di Roma, subì l’assalto dei cercatori.
Al tempo di Pio IV (Giovanni Angelo Medici - 1559-1565), uno di questi,  autorizzato dal Pontefice, si sa che “a forza di scarpello, entrò dentro e fece come una porta, e quando si trovava a mezzo del fianco voleva poi calarsi giù a piombo. Ancora vi sta la buca che vi fece lo scarpellino"[25].

L’arco di Giano è il grande arco che gli sta di fronte alzato da Costantino (307-337) e battezzato dal popolo “arco di Giano”, senza tener conto che la parola “anus” non è il nome del Dio ma il nome della forma della costruzione a quattro fornici incrociati (tetrapylon) .
Questi, per dare una copertura al punto di incrocio di due strade che volgevano al Foro Boario e che serviva di ritrovo ai mercanti, lo avrebbe costruito con la stessa tecnica di quelli di Vienne (Francia), Celenderis (Asia minore) e Marlborghetto (via Flaminia).

Nel medioevo i Frangipane ne chiusero i fornici e vi alzarono sopra una torre che poi fu detta di Boezio, forse dalla vicina abitazione del filosofo Severino Boezio (480-534) o da un tale Egizio Boezio, avversario del pontefice, al quale furono abbattuti i possedimenti ch’erano stati fabbricati sui ruderi dei monumenti.
Solo nel 1827 la torre fu demolita sotto Leone XII (Antonio Clemente della Genga - 1823-1829).

Ma il pericolo della demolizione l’aveva già passato l’intero arco, quando Sisto V (Felice Peretti - 1585-1590), in data 4 gennaio 1588, così scriveva “al Cavaliere Domenico Fontana, nostro Architetto generale. Farete guastare l'arco Boario presso la fontana di S. Giorgio all'effetto di servirvi di quei marmi per fare il piedistallo per la guglia di S. Giovanni in Laterano”. Ordine tanto più grave perché, con un breve del 30 novembre 1587 il Pontefice non aveva esitato a scrivere al Fontana stesso:
Non vogliamo siate tenuto a rendere mai conto a nessuno né tampoco siate incorso in pena o censura, dandovi potestà che per l'avvenire, per servitio delle nostre fabbriche, ne leviate delli altri (marmi), dove a voi piacerà, senza licenza alcuna e senza incorrere pene e censure”. E che Sisto V non mettesse limite a questa  distruzione,  lo  dimostra  l’ordine  dato,  pure  al  Fontana,  e  da  lui  stesso narrato, con l’inizio dell’abbattimento del Colosseo, dopo che il Settizonio aveva già funzionato da cava di marmi.

L’arco, che fin dal 1769 serviva da legnara, diventò covo di malavita, vi si collocarono fabbricanti di spaghetti fino al 1771, e si appoggiarono piccoli edifici, finché nel 1810 fu tolto l’interramento ed isolato poi il monumento.

Un resto del pavimento in lastre di travertino, resta ancora sotto l’arco, ma che quello intorno si fosse addirittura abissato, lo dimostra chiaramente il fatto avvenuto il 14 febbraio 1601: "Fin dall'altra settimana, verso l'ultimo, avvenne un caso degno di spavento, et è che passando una povera donna con la sua figliola di dietro, vicino alla chiesa e fontana di S. Giorgio, senza avvedersene punto le mancò il terreno sotto li piedi e si sprofondò in modo, che non è stata mai possibile ritrovarla, con tutto che la Corte ci habbia fatta cavare et usar diligenza, et, per questo caso veniva manco a notitia, se non era la figliola che n’ha conto, et ne fa ricordar che, di là vicino, gli historici pongono forse, se però fu vero, lo speco [26] ove si buttò quel cavaliere romano per salute della patria, così ammonito dall'oracolo, che bisognava buttarci la più cara cosa che aveva Roma se voleva si chiudesse". 

Certo che le condizioni di tutta la località dovevano essere disastrose, si legge infatti: “Gli sbocchi delle acque putride della Cloaca e della Marrana [27],unite con altre acque antiche, in occasioni di piogge ed escrescenze, empiono quei siti bassi, restandosi morte, con trasmettere unitamente esalazioni umide e grosse, che non avendo agitazione, con il soffio della tramontana e venti secchi impedita dagli edifici eminenti e monti che la circondano, stagnavasi in detto sito basso, restando la chiesa e convento totalmente ristretti nell'aria umida e grossa, con produrre ai Padri che vi abitano per custodirla ad abitarvi, effetti dannosi assai pestiferi...” la chiesa di San Giorgio infatti, nonostante le diverse riparazioni operate nei secoli era in completa rovina nell’800, devastata dall’alluvione del dicembre 1846, fu sconsacrata ed adibita a magazzino. Fu nel 1926 che per opera di Antonio Muñoz [28] il tempio fu ripristinato, conservandogli quel carattere che i secoli gli avevano impresso.

S. Giorgio in Velabro, detto già nella bibliografia di papa Zaccaria (741-752) nel Liber Pontificalis "ad vellum aureum"[29]. Tale attributo è pure ripetuto sull’epigrafe del portico esterno, che ne ricorda il restauro operatovi a cura del priore Stefano della Stella (sec. XIII).

"+ Stephanus ex Stella, cupiens captare superna,
Eloquio rarus, virtutum lumine clarus,
Expendens aurum studuit renovare pronaulum,
Sumptibus ex propriis tibi fecit, sancte Georgi.
Clericus hic cuius prior ecclesiae fuit huius:
Hic locus ad velum praenomine dicitur auri. "[30].

Il tempio passò attraverso queste fasi:
Una piccola basilica nel V secolo, che Gregorio Magno (590-604) elevò a diaconia cardinalizia, posseduta da monaci greci, faceva parte di quei monumenti per il culto greco [31] elevati in Roma.
Leone II (682-683) dette una forma migliore alla Chiesa e la dedicò a S. Giorgio e Sebastiano.
Papa Zaccaria la restaurò (741-752) e vi trasportò la reliquia del corpo di S. Giorgio, da lui rinvenuta nel Patriarchio. Lavori più importanti di rinnovo e decorazione vi fece Gregorio IV (827-844). Sotto Bonifacio VIII (Benedetto Caetani - 1294-1303) nel 1298, a spese del cardinale titolare Giacomo Stefaneschi, fu dipinta la conca dell’abside da Giotto [32], chiamato a Roma dal cardinale, per eseguirvi anche un mosaico ed un quadro (La  navicella di S. Pietro al di sopra dell’ingresso mediano del portico dell’antica basilica di San Pietro).

Sono pure del XII-XIII secolo il campanile addossato all’arco degli Argentari e le opere cosmatesche della basilica. Fu sulle sue mura che Cola di Rienzo affisse uno dei suoi proclami e da essa trasse il vessillo di S. Giorgio, che v’era custodito, e che processionalmente portò in Campidoglio nell’aprile del 1347, entro un cofano perché “era Veterano”.

Sembra che Cola fosse particolarmente devoto di questo "confalone", perché è su di esso che fece giurare fedeltà alla Repubblica ai baroni ed al prefetto Giovanni de Vico.

Il vessillo, al principio del XIX secolo, era ancora custodito dalla chiesa in “una cassetta di legno che sembra di noce, ovvero di pero, co’ i suoi cristalli”. Vi si vedevano “4 piccoli brandelli di seta: uno fine e rosso, portava sigilli; un altro aveva una piccola targa con questa iscrizione: Dal vessillo di S. Giorgio milite martire”. “Il terzo era di color purpureo con righe sottili nella tessitura e terminava da una parte con fili turchini, ed il quarto sembrava di una grossa stoffa di seta con disegno non più identificabile”. La tessitura ricordava quella delle stoffe musulmane rinvenute in Egitto. In altro reliquiario era quel grande gonfalone con l’immagine del martire (è ora nell’appartamento Borgia).

L’eponimo della diaconia è il Giorgio di Cappadocia soldato e martire sotto Diocleziano (284-305) e la sua chiesa, del secolo XVI, fu anche chiamata di S. Giorgio alla Fonte.

Ebbe,  come  già  detto,  altri  restauri [33];  anche  da  Leone XII  (Annibale Clemente della  Genga - 1825-1829) che ne riparò il soffitto, ma solo il recente restauro di Muñoz la riportò alla primitiva semplicità e purezza delle sue linee.

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[1]           Oggi lo si fa derivare da una radice "vel" con significato di palude, attribuibile agli Etruschi che abitavano il prossimo "Vicus Tuscus". Altre varie etimologie sono state respinte.

[2] )            Remo lo si dice ucciso dal fratello Romolo per aver scavalcato, in segno di disprezzo, il fossato che questi aveva costruito intorno alle mura della sua città quadrata. L’altra versione  racconta, che lottarono per potere avere ciascuno il potere sulla città in costruzione,   poiché avevano stabilito, che la supremazia andasse a chi dei due avesse visto alzarsi in volo maggior numero di uccelli; Remo avendone visti per primo sei e poi Romolo dodici, questi uccise il fratello perché egli ne aveva visti di più e quindi pretendeva l’imperio. Ancora una terza leggenda ci dice che Remo, non riuscendo ad andare d’accordo col fratello, troppo autoritario, lasciò Roma e si recò in Francia, dove fondò la città di Reims. Il figlio fondò invece quella di Siena, in Italia.

[3] )            Un nuovo documento sulla leggenda delle origini di Roma è stato rinvenuto dalla professoressa Margherita Guarducci: Trattasi di un cippo, della fine del IV o degli inizi del III secolo a.C., che attesta l’esistenza di un culto ad Enea sulle rive del fiumicello Numicio: ciò che mostra come la venerazione dell’eroe troiano era anteriore ai tempi di Augusto.
Le leggende di Enea, dei 12 re albani; di Rhea Silvia e dei gemelli, furono importate a Roma dagli eruditi storici greci del secolo IV a.C., dopo la conquista della Campania, applicando ai miti romani analoghi miti greci, fra i quali quelli di Tiro, figlio di Salmonca violata da Nettuno sulle sponde dell’Enipeo, i cui gemelli abbandonati furono dati ad allattare ad una capra.

[4] )            Livio, libro I, 4.

[5] )            Non è improbabile che l’ara di forma arcaica, poco lontana, dedicata al “genius loci” dal pretore Caio Sestio Calvino nel 129 a.C. (da lui restaurata con l’ara in travertino,1’altra assai più antica, forse di tufo) si ricolleghi col Lupercale.

[6] )            La critica moderna la giudica invece un’opera già avanzata della Repubblica, sia per la tecnica muraria, sia per la sua forma e sia per le condizioni di Roma in quel periodo. Dice Livio (libro I, 38) riferendosi a Tarquinio Prisco: "...et infima urbis loca circa Forum, aliasque interiectas collibus convalles, quia ex planis locis haud facile evehebant aquas, cloacis e fastigio in Tiberim ductis siccat...”.

[7] )            Per ultimo lo fece Alessandro VII (Fabio Chigi - 1655-1667) col materiale proveniente dallo spianamento della piazza del Pantheon.

[8] )            Il "Cabreo (Inventario) delle fognature" - posseduto dall’ufficio tecnico del Comune di Roma, comincia dai rilievi della Cloaca Massima e finisce agli ultimi collettori. Ventimila e più chiusini, sulle nostre strade, alla distanza media di 25 o 50 m l’uno dall'altro, scaricano le acque stradali nelle condutture minori, ove affluiscono pure i condotti delle case, sfociando poi nei grandi collettori. È una rete di circa 500 km di condutture che fanno capo a due grandi collettori a sifone che costeggiano a destra (Magliana) e a sinistra (S. Paolo) il Tevere. Queste due gallerie sono alte m 7,60 e larghe circa 5 m e sono praticabili, come il resto della rete, che ha un minimo di altezza di cm 90 e una portata media di m³ 100 al minuto".

[9] )            Vedi "Via Tor de´ Conti" (Monti)

[10] )           L’Argileto, partendo dal Foro Romano, raggiungeva la Suburra e le Carine. Questa strada di grande traffico fu detta "Argiletum”, secondo Varrone (116-27 a.C.), da Argola (personaggio ivi sepolto); altri pensano all’Argilla, poiché lì vi si trova questo genere di terra. Prima della costruzione della basilica Emilia (179 a.C.) scendeva dalla Suburra in linea retta, da est ad ovest, sul tracciato di un tratto di cloaca ancora visibile e sboccava nel punto di congiunzione del Comizio col Foro; più avanti, l’ultimo tratto fu alquanto deviato verso nord; sotto Domiziano (81-96) una parte fu inclusa nel Foro Transitorio (Nerva) entrando da un angolo e uscendo da quello diametralmente opposto.

[11] )           È verso il sacello di Cloacina che il centurione Virginio trasse la figlia Virginia, e qui, presso le taberne, dette poi “nuove”, la uccise onde sottrarla alla schiavitù del decemviro Appio Claudio. (Livio III, 48).

[12] )           “In Velabro qua in Novam viam exitus”.

[13] )           Livio chiamava la Cloaca “receptaculum omnium purgamentorum urbis”. Per quanto l’immissione degli spurghi delle case avvenne in età relativamente recente, servendosi i romani dei pozzi neri.

[14] )           Vedi “Via di San Teodoro” (Campitelli).

[15] )           Vedi “Via di Santo Stefano Rotondo” (Monti).

[16] )           Vedi “Piazza e via della Navicella” (Monti).

[17] )           Un pozzo a fior di terra fra la seconda e la terza colonna della chiesa di San Gregorio è segnalato dal Fea come quello che avrebbe l’acqua Argentina.

[18] )           Nella cloaca entravano ancora, durante il percorso, parecchi collettori. Nel corso superiore, quelli della Suburra (via Tor dei Conti) e dei Fori Imperiali; nel corso medio, tutte le fogne secondarie del Forum, compresi gli scoli del Campidoglio e della Velia; nel basso corso le acque del Velabro e in parte quelle del Palatino e dell’Aventino. Un’altra cloaca, quella del Circo Massimo (cloaca circi Maximi) convogliava le acque del versante sud occidentale del Palatino e dell’opposto versante dell’Aventino e, nei pressi della Moletta, riceveva le acque delle pendici ovest del Celio. Quando nel medioevo si ostruì questa chiavica, le acque correvano allo scoperto e si scaricavano nell’Acqua Mariana. Così l’Omnis Pretoria e l’Omnis Sallustiana provvedevano per gli altri colli. Del resto le vecchie cloache che, prima dell’invasione gallica risultavano ordinatamente sotto le pubbliche strade, nella fretta della ricostruzione dell’Urbe, si ritrovarono qua e là sotto le case private (Livio libro V, 55).

[19] )           “Unde escendebant ad infimam Novam viam locus sacellum Velabrum” (Varrone).

[20] )           La Porta Rumanula o Romana (Vicino alle arcate adrianee), guardava il fiume detto “rumor”. -  “quae habet gradus in navalia ad Volupiae sacellum”, ed anche “in infimo clivo Victoriae; qui locus gradibus in quadram formatus est”.
Nell’età repubblicana il “clivus Victoriae” era un ramo della “Via Nova” che in origine sboccava presso le due o più rampe delle “scalae Caci”( Il gigante mostruoso, che sotto la clava di Ercole “cadit mixtoque vomit cum sanguine fumos...”) che dalla sommità del Germalo scendevano fino al Velabro. La porta però doveva trovarsi all’altezza delle mura della Roma Quadrata. Secondo Festo, la Romanula, che nell’epoca storica serviva di passaggio ad un acquedotto, aveva uno sgorgo d’acqua nell’epistilio (architrave).
In origine, delle strade dentro le mura di Roma, due soltanto si chiamavano viae, come le consolari fuori delle porte: la “Sacra via” e la “Nuova via”; le altre strade della città erano i Vici e, se in salita, Clivi. Le dette viae partivano dalla “Mugonia” o “porta Vetus Palatii”.
La meno antica, Nuova via, correva sotto la linea di fortificazione della Roma quadrata a mezza costa e sboccava presso le “scalae Caci”. La Sacra via era in origine dalla casa del “Re sacrificulus” (presso arco di Tito) fino alla Regia. Fu poi estesa al tratto che va dall’arco di Costantino a quello di Tito.
Fuori della porta c’erano i sepolcri di Cincia, sormontato da una sua statua e quello di Acca Larenzia che sarebbe stato eretto da Numa Pompilio e nei cui pressi i sacerdoti sacrificavano annualmente ai Mani servili. “Acca Larenzia” onorata per le ricchezze da lei donate al popolo romano “parentari rei publice”. Per altri fu una meretrice che, uscendo dal tempio di Ercole, dove aveva pernottato col Dio, incontrò un ricco cittadino (Caruzio o Taruzio o Taurilio) che se ne invaghì e la sposò ed Acca rimastane erede, cedé la sua ricchezza al popolo romano. Altri ancora la identificano con la moglie di Faustolo, nutrice di Romolo, che fu madre di 12 figli, di cui uno morto fu sostituito da Romolo stesso. Questi si chiamarono fratelli “Arvali” sacerdoti che amministravano la religione dei campi (insegna: una corona di spighe legate da una bianca benda).

[20bis]         I Mani erano gli spiriti dei defunti che, si credeva, ritornassero in questo mondo tre volte all’anno, influenzando, positivamente o negativamente il destino dei viventi. Le festività, in loro onore, erano dette “Feralia

[21] )           Le Volturnalia chiudevano la serie delle sagre di agosto e, dal fatto che il flamine Volturnale era fra i più antichi istituiti da Numa, si può escludere che il Dio Volturno o Vorturno provenisse dalla Campania che, secondo Properzio (49-16 a.C.), era un rude tronco che per opera di Mamurio cominciò a prendere le tante sue diverse forme (corrispondenti alla natura di Giano)

[22] )           Il tempio di questo "deus Etruriae princeps” sorgeva sul "vicus Loreti”. Era stato dedicato il 13 agosto del 264 da M. Fulvio Flacco per la vittoria sui Volsinii e vi si celebravano le Vertumnalia.

[23] )           Tevere - Si chiamò Albula, AmnisTuscus, e secondo Antonio Nibby, il primo nome gli fu dato per il colore delle sue acque, il secondo per lo stanziamento degli etruschi sulla sponda destra.
Tiberis sarebbe appunto parola etrusca, mentre il “paternum flumen” di Orazio, che gonfiandosi per le piogge si tingeva in rosso e giallo tanto da assumere il soprannome di “flavus”, in obbedienza ad un’antica tradizione, assunse il nome di Tiber dopo che Tiberio re di Alba Longa vi rimase annegato. Secondo Virgilio invece, Tiberis originò da Thibris che era un personaggio di forme gigantesche della schiatta dei Siculi.
Dei ponti che lo attraversavano alla vigilia delle invasioni: Sublicio, Palatino, Cestio, Fabricio, Gianicolense, Vaticano, Elio, Milvio, rimangono, nella ricostruzione, il Cestio, il Fabricio e l’Elio, sul quale passò Dante pellegrino nel Giubileo di Bonifacio VIII ed i Lanzichenecchi nel sacco del 1527, di Carlo V, ecc. ecc.

[24] )           Come in quella dell’arco di Settimio, al Forum, anche l’immagine di Plantilla, per la “damnatio memoriae” ne fu abrasa.

[25] )           Dice il Vacca: "li Romani dubitando non ruinasse l'Arco e sospetti della malvagità del Goto (l'autorizzato a scavare), nella qual nazione dubitavano regnasse ancora la rabbia di distruggere le Romane memorie, si sollevarono contro di esso, in quelle hebbe a gratia andarsene via, e fu tralasciata l'opera".

[26] )           “Lacus Curtius” (prossimo alla colonna di Foca - scoperto nel 1904) era una specie di pozzo che ricordava l’antica palude che occupava nei primi tempi di Roma la bassa valle del Foro (il “Velabrus minor”) e che fu poi prosciugata conservando però quel carattere sacro che aveva acquistato.  Il nome venne attribuito al precipitare nella palude che fece il Sabino Mevio Curzio, incalzato dai Romani. Altri si riferiscono al sacrificio  di Marco Curzio  fatto  a salvazione di Roma. Secondo la leggenda: il patrizio Marco Curzio si gettò nella voragine armato, perché gli auguri avevano predetto, che non si sarebbe chiusa se non quando i romani vi avessero gettato ciò che avevano di più prezioso, cioè le armi. Dice Ovidio: (43 a.C-18 d.C.) “Curtius ille lacus, siccas qui sustinet aras – Nunc solida est tellus, sed lacus ante fuit.

[27] )           La Marrana ebbe, nei secoli, un ufficiale deputato alla sua custodia. Carica che era ancora in essere nel XVII secolo.  Qui al Velabro affluivano gli scoli non solo dei monti più prossimi, ma anche dell’Esquilino e del Quirinale, con un arrivo all’aperto che fu poi convogliato nella Cloaca Massima (Varrone).

[28] )           Il proavo di Antonio Muñoz, venuto a Roma nel 1724 per sbrigare una causa intorno a certi beni contestatigli, ci si trovò così bene che, vinta la causa, ne lasciò il beneficio ai suoi parenti e lui non volle più muoversi di qui; sposò una bella romana e così Ignazio Muñoz Palamero dette origine alla famiglia Muñoz romana.

[29] )           Il culto d’Ercole aveva il suo centro nel prossimo Foro Boario, infatti “Aedes Herculis Victoris duae: altera ad Portam Trigeminam,  altera in Foro Boario, cognomine rotunda et parva”. In quest’ultimo si tenevano i conviti a lui dedicati che si celebravano in rito greco, a capo scoperto e non potevano assistervi né servi, né liberti, né donne perché, invitata, e non essendovi intervenuta Carmenta (la madre di Evandro), Ercole stabilì che nessuna donna dovesse mai gustare del sacro convito che si teneva a sedere e non coricati, non potendovi essere lettisterni (triclinii) nel tempio di Ercole. Il sacro convito era officiato dalle due famiglie, dei Potizi e dei Pirani (Livio I, 7.), cui era stato affidato il cerimoniale da Ercole stesso. I Potizi erano considerati capi della santa operazione ed avevano le primizie al bruciarsi delle vittime, mentre i Pirani non ne potevano ricevere, perché la prima volta, comandati da Ercole stesso, non si presentarono, come d’accordo, di primo mattino, ma quando le viscere erano già consumate. Nell’anno 443-311 i Potizi cedettero, dietro istigazione del censore Appio Claudio, per denaro, la cura e l’amministrazione del sacrificio stesso, ma per punizione divina, Appio Claudio perdette la vita, e nello spazio di un anno morirono tutti i giovani di quella famiglia e tutto il cerimoniale rimase in mano ai Pirani.

[30]         “Stefano della Stella, uomo di rara eloquenza, desideroso di conseguire il supremo perdono, cercò di rinnovare il pronao con suo denaro, e a sue spese per te, o San Giorgio, fece questo lavoro. Egli fu priore di questa chiesa, che, dal luogo ove sorge, fu detta del vello d'oro”.

[31] )           Basiliche greche in Roma = Poco prima della porta ostiense, presso la piramide di Caio Cestio, v’era un oratorio del diacono e martire greco Euplo di Catania, eretto da papa Teodoro (642-649). Altri monumenti del culto greco in Roma erano: il cimitero davanti la Basilica di S. Paolo che aveva portici dipinti, lastricato di marmo ed estese costruzioni solitamente annesse ai cimiteri delle grandi Basiliche. Pure prossimo alla detta basilica, lungo il “porticus quae ducit ad S. Paulum apostolum”, vi era un santuario degli Alessandrini, la chiesa del martire Mena, dove, sullo scorcio del VI sec., Gregorio Magno (590-604) vi tenne stazione e predica (Quia longius ab urbe digressi sumus etc). Passata la porta, dai segni cristiano-bizantini, il monastero del palestinese S. Saba (Aventino), fondatore della grande “laura presso Gerusalemme. Nel secolo VII aveva già dei monaci greci e la prima chiesa s’era stabilita in un oratorio a forma di sala di tarda età romana, in cui va riconosciuto l’oratorio di S. Silvia che stava: “loco qui dicitur cella nova”, come “monasterium Cellanova” come lo chiamarono i monaci greci fondatori, forse per imitare la famosa “Laura di Gerusalemme”. Oltre l’“emporium” e gli “horrea” delle XIII e XI regione lungo il corso del Tevere, nel “forum boarium” vi era la “Schola graeca” (via della Greca) attigua a S. Maria in Cosmedin, dal greco “l’abbellita” e che ne aveva un’omonima a Costantinopoli, Ravenna e Napoli. Anche S. Anastasia o Anastasis fa pensare ad un’origine bizantina e poco lontano, nel Velabro, S. Giorgio, cavaliere greco, è una chiesa ricostituita da Leone III (795-816).
Così pure la rotonda di S. Teodoro e poi l’oratorio di S. Cesario in palatio sono monumenti dei bizantini cristiani. La curia del Senato diventa il santuario di Adriano da Nicomedia, in S. Maria in Aracoeli, abita con i suoi monaci un Hegumenos (abate), una chiesa diaconale dedicata ai santi eufratesi SS. Sergio e Bacco presso l’arco di Settimio Severo, quella pure diaconale dei martiri della Cilicia Cosma e Damiano ed altre chiese pure greche sorsero nelle vicinanze del foro. Ma il monumento della vittoria di Roma orientale è la basilica degli apostoli Filippo e Giacomo minore (SS. XII Apostoli) fabbricata sotto Narsete, in forme greche. Sulla via Palatino-Terme costantiniane, alle falde del Quirinale, la splendida basilica greca era ornata da grandi portici che  la attorniavano. Alcune colonne, residue del portico di marmo pentelico, si possono vedere oggi in una cappella laterale della chiesa. Questa costruita da papa Giulio (337-352) fu ingrandita ed ebbe la pianta dell’“Apostoleion” di Costantinopoli; forma a croce che conservò fin nel secolo XV nonostante i forti cambiamenti già avvenuti.

[32] )           Altri la attribuiscono a Pietro Cavallini (1273-1316).

[33] )           Vi è stata trasportata l’istoriata ara d’Apollo che servì da altare maggiore alla chiesa di Santa Galla (Chiesa che era sotto l’edificio dell’Anagrafe, in via Petroselli n.50) e che oggi è nella chiesa Parrocchia di Santa Galla, all’Ostiense.

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Lapidi, Edicole e Chiese lungo la via:

- Chiesa di San Giorgio al Velabro
- Chiesa di San Giorgio in Velabro - Lapidi
- Arco degli Argentari
- Arco di Giano

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